Salario equo: ma qual è mai?

/ 21.05.2018
di Luciana Caglio

Diventa sempre più consistente, in Svizzera, la busta paga dei salariati. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica, quello mediano è di 6500 franchi mensili. Ciò che attribuisce un potere d’acquisto, del 40 per cento più alto, rispetto ai cittadini dei paesi confinanti, e quindi compensa largamente gli elevati prezzi elvetici. A prima vista è una buona notizia, viziata però da quel marchio di ufficialità, destinato, inevitabilmente, a sollevare contestazioni, sospetti, persino rabbia. Diffondendo una cifra, che in sé rappresenta un primato mondiale, le nostre autorità sembrano, infatti, alla caccia di consensi, proprio nell’ambito dove si tocca dal vivo la sensibilità, individuale e collettiva: cioè l’equo salario. Ora, stando a Berna, l’obiettivo, se non pienamente raggiunto, sarebbe ormai vicino. Anche se, dopo l’iniziale trionfalismo, anche il cosiddetto «miracolo salariale elvetico», è stato relativizzato, alla luce di disuguaglianze persistenti, fra uomini e donne, fra Cantoni, fra professioni. Rimane, quindi, sempre attuale il dibattito intorno a un tema inesauribile che, giustamente, mobilita gli addetti ai lavori: imprenditori, sindacalisti, politici, in cerca di soluzioni possibili. Ma il loro intervento si ferma qui.

Infatti, il salario, o stipendio, reddito, onorario, chiamiamolo come si vuole, riveste significati, che superano i buoni intenti degli specialisti in materia finanziaria e organizzativa. A questo punto, ci s’inoltra, invece, nella sfera delle cosiddette percezioni, per usare un termine corrente nelle previsioni meteo, quando si parla di 30 gradi reali e 35 percepiti, cioè un fatto concreto subisce interpretazioni individuali, diverse e vaghe. Lo stesso avviene nei confronti della paga, considerata corretta o scarsa, secondo gli umori di chi la riceve. Ma c’è dell’altro. Una semplice cifra, stabilita da un contratto di categoria, assume, non di rado, connotati qualificanti sul piano sociale e psicologico. È vista come un attestato di merito e capacità e, addirittura, come una sorta di biglietto da visita, un lasciapassare verso gli ambienti di chi conta. Soprattutto, questa cifra diventa lo specchio che riflette il nostro valore di «Homo faber»: quello del cittadino che si mette alla prova lavorando. Logico, allora, domandarsi: io quanto valgo, in termini salariali?

Proprio a quest’interrogativo era dedicato il mensile illustrato della «NZZ» dello scorso aprile, in cui il tema equo salario era affrontato, certo sulla scorta di dati statistici e documenti ufficiali, ma anche come fatto di costume e di mentalità. Registrando addirittura «un’anomalia» che distingue i rapporti umani, persino quelli familiari, rispetto a quanto avviene in altri paesi, soprattutto in quelli nordici. Si tratta della riservatezza che, da noi, circonda l’ammontare dei propri introiti. Se ne discute, nell’ambito politico ed economico, ma nell’ambito della quotidianità, rimane un argomento tabù. Secondo uno studio della Consors Bank, nel 40 per cento delle coppie vige questo tabù fra coniugi o partner. E, ovviamente, questa particolarità non manca di stupire gli osservatori stranieri. Ecco che, sul citato «Folio NZZ», il giornalista tedesco Peter Haffner ironizza: «La parte più intima del corpo dello svizzero è il suo portamonete». E paragona il silenzio sul salario al segreto della ricetta dei formaggi, come si vede nel delizioso spot degli alpigiani in costume. A sua volta, il giornalista inglese, Diccon Bewes, osserva: «Di soldi si parla, ma a bassa voce. Un po’ come per un amore segreto, di cui non si dice il nome». Per poi concludere che, comunque, il danaro c’è sempre, ma dietro le quinte.

Segretezza, prudenza , se sono parenti prossimi dell’ipocrisia, hanno però prodotto anche forme di comportamento improntate alla sobrietà che, non di raro, contrassegna i ceti facoltosi, soprattutto oltre Gottardo, capaci di evitare esibizionismi arroganti. Ma succede pure l’opposto: il ricco che vive modestamente, camuffato da povero. Ciò che, a ben guardare, rappresenta sempre una scelta da privilegiati. Il ricco può concedersi anche questo lusso. C’è da dubitare che l’equo salario riesca a cancellare queste disparità.