Cristiano Ronaldo non è ancora un ex calciatore. Tuttavia, all’età di 38 anni, sembra non più essere in grado di fare la differenza, come ha fatto per lungo tempo con la maglia del Manchester United, del Real Madrid e della Nazionale portoghese. Già il suo soggiorno torinese, sponda Juventus, non era stato all’altezza della sua fama e della sua classe cristallina. Il ritorno, la passata stagione, a casa dei Red Devils, è stato ancora meno lusinghiero. Anzi, dato che ci stiamo occupando di CR7, e non di un ex terzino della Pergolettese, potremmo tranquillamente parlare di disastro.
Perbacco, aveva segnato diciannove reti in quaranta partite. Ma sono briciole rispetto alle ottantuno siglate in novantotto incontri in bianconero, o le trecentoundici firmate con Los Merengues in duecentonovantadue sfide. Ronaldo, nel suo secondo passaggio in Premier League, aveva persino dovuto subire lo smacco di essere spedito in tribuna dal tecnico dello United, Erik ten Hag, con il quale pare non corresse buon sangue. E anche Fernando Santos, il CT della Selezione portoghese, in occasione della recente Coppa del Mondo in Qatar, gli aveva sbattuto in faccia l’onta della panchina. A lui, l’Eroe nazionale, colui che negli ultimi quindici anni aveva scritto le pagine più esaltanti del calcio portoghese. Con grande professionalità, Cristiano Ronaldo aveva accettato questo cambiamento di paradigma senza battere ciglio. Forse perché era già al corrente di ciò che bolliva nel faraonico calderone arabo. Chissà, magari il gesto dell’ombrello ai danni del Selezionatore lo faceva la sera, in camera, anzi nella suite. Immaginando che Santos avrebbe presto fatto le valigie e lui, CR7, avrebbe firmato di lì a poco, il contratto più lucrativo e sfavillante della storia dello sport: un miliardo tondo tondo di dollari. In cambio avrebbe dovuto vestire per due stagioni la maglia della squadra saudita dell’Al Nassr, allenata dall’ex tecnico della Roma, Rudi Garcia, e fungere da testimonial per la candidatura che l’Arabia Saudita intende proporre alla FIFA per la Coppa del Mondo del 2030.
Mentre a Doha si tessevano le trame di questa intesa finanziariamente stellare, Lionel Messi, il grande rivale di CR7, trascinava la Nazionale argentina verso la conquista della Coppa del Mondo. Dimostrando di essere ancora vivo, attivo, performante. Era giunto finalmente quel tanto agognato trionfo, che si aggiungeva all’oro olimpico del 2008 a Pechino, ai sette Palloni d’Oro, ai numerosissimi successi conquistati con la maglia blaugrana del Barcellona e alla Coppa America del 2021. Alzare al cielo la Coppa del Mondo è stato sinonimo di consacrazione definitiva. Di beatificazione. Significava aggiungere al mosaico di pietre preziose la tessera che fino a quel giorno lo discriminava nei confronti del suo fenomenale predecessore, Diego Armando Maradona.
Ma, di grazia, come è possibile che un calciatore con queste doti e con questo palmares possa guadagnare un sesto di quanto incassa il suo rivale portoghese, per altro già avviato sul viale del tramonto? Non sia mai detto. Ecco che l’Al Hilal, squadra saudita, grande avversaria dell’Al Nassr, propone alla Pulce atomica un biennale da trecento milioni l’anno. Cifre da paura. O da vergogna. Valutate voi. Anche se non c’è nulla di definivo: pare che Leo abbia rifiutato l’offerta, per prolungare almeno fino al 2024 il contratto che lo lega al Paris Saint Germain. Continuerebbe a guadagnare trenta milioni di euro l’anno. Bruscolini. Il dieci per cento di quanto incasserebbe in terra araba. Probabilmente preferisce palcoscenici prestigiosi come la Ligue 1 e la Champions, al desolante campionato saudita che nessuno si fila. Ma la vera questione è altrove.
È morale prima che finanziaria. Sta nel continuo pompare denaro in un fenomeno come il calcio, che succhia risorse senza mai pareggiare i conti. I grandi club sono tutti pesantemente indebitati. Come lo sono gli Stati, che però si sobbarcano sanità, formazione, socialità, mobilità, giustizia, e molto altro ancora. Chissà, si potrebbe provare col merchandising e vendere le T-Shirt con l’effigie di Alain Berset o Viola Amherd. Ma dubito che possa essere un buon affare.