S’accendono i Mondiali, si spengono i cervelli

/ 05.12.2022
di Carlo Silini

Premessa: adoriamo il calcio e, pur col mal di pancia, non resistiamo alla tentazione di sbirciare le partite in Qatar. Questo è il problema.

Eravamo e restiamo convinti che questi Mondiali meritino la nostra indignazione, perfino il boicottaggio. Ce l’impongono le indiscrezioni sul regime di schiavitù a cui erano sottoposti gli operai che hanno costruito i templi del pallone nel deserto, con l’allucinante cifra di 6500 morti rivelata dal «Guardian» che a sua volta l’aveva ricostruita attingendo ai dati ufficiali delle ambasciate di India, Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan e Nepal, cinque dei Paesi da cui provenivano gli impiegati edili utilizzati per i cantieri. Ma i numeri reali sono peggiori, visto che Stati come Kenya e Filippine, che hanno pure inviato frotte di lavoratori, non hanno raccolto dati, e che la stima non include gli operai morti prima del 2020. Parliamo di oltre 6500 vittime del lavoro forzato, di altrettante vite sacrificate al nostro inalienabile diritto al divertimento pallonaro, all’accecata passione per gli eroi milionari del rettangolo verde, le cui stelle brilleranno – non certo per colpa loro, sia chiaro – anche sopra il camposanto della manodopera a bassissimo costo dei cantieri del Qatar.

Ce l’impone poi l’inappuntabile contrarietà alle politiche qatarine che calpestano (lo afferma un rapporto del 2021 di Human Rights Watch) i diritti delle donne, delle persone LGBT+ e la libertà di stampa.

Pollice unanimemente verso, quindi, fino a pochi secondi dalla prima partita, nei confronti di questo regime barbaro, ricco e liberticida. Eppure, poco dopo, ecco il mega pollice globale dell’opinione pubblica roteare verso l’alto, indicando un sempre meno timido like.

Difficile credere che il cambio d’umore dipenda dalla spudorata testimonianza del presidente della FIFA, Gianni Infantino, capace di scagliarsi contro le «lezioni morali dell’Occidente» e di esibirsi in uno spettacolare outing: «Oggi mi sento qatarino, oggi mi sento arabo, oggi mi sento africano, oggi mi sento gay, oggi mi sento disabile, oggi mi sento lavoratore migrante», ha declamato. Dimenticando che per essere credibile dovrebbe stare in una prigione qatarina se non – serenamente – sottoterra.

Poco sensato pensare, poi, che la causa dell’inaspettato apprezzamento sia costituita dalle storie virtuose ai margini del torneo. Come la muta protesta dei calciatori iraniani che non hanno cantato (e più tardi hanno solo sussurrato) l’inno nazionale in segno di dissenso contro la repressione delle proteste in patria dopo la tragica fine di Mahsa Amini, morta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo. Come se potessimo illuderci che i Mondiali di calcio magari sono nati sghembi e cattivi, però sono diventati un potente antidoto all’intolleranza. Non raccontiamocela così, che sembra quasi un’opera pia. E infatti, per descrivere questo fenomeno è stata creata una nuova parola: «Sportwashing», in pratica il tentativo di ripulire la coscienza magnificando lo sport.

La verità è più prosaica e disarmante. Questi Mondiali hanno cominciato a piacere dal momento in cui siamo stati noi (dove per «noi» non dobbiamo intendere i singoli individui, che possono restare critici, ma la macchina globale dell’informazione e della società) a costruirci delle efficacissime contro narrazioni della realtà. Da quando la palla ha cominciato a rotolare sul campo chi ha pensato alle mani sporche di Doha e all’ipocrisia della FIFA? C’è Shaqiri, Embolo, la «Nati», un popolo, anzi: 32 popoli, fieramente uniti sotto la bandiera, il sangue patrio pulsante nelle vene, l’orgoglio di strapaese che fa risuonare il carillon delle campane a festa per ogni gol, parata o geometria balistica dei «nostri», o per ogni giocata funambolica di questo o quel divo internazionale del football. Tutti vittime dell’oblio, tutti a tifare per il ruvido centravanti, il difensore che morde i polpacci all’avversario, l’inarrivabile fantasista.

Tutti in ginocchio davanti al Dio calcio, ancora una volta. Torniamo primari, non a-morali ma pre-morali, come eterni bambini che si perdono nell’incanto del gioco, nelle regole magnetiche della legge del più forte. Si urla, ci si entusiasma, si strilla con l’idea fissa del gol e/o della vittoria che cancellano ogni altra bruttura. Si accendono le luci, rotola la palla e, pof! che subdola magia: ci si spegne il cervello.