Romandi e francesi: fine di un idillio

/ 18.04.2017
di Luciana Caglio

A quanto pare, quel «prima i nostri», che fa tanto parlare di sé, non è più soltanto una poco invidiabile prerogativa ticinese, insomma un’invenzione della Lega che certi malumori li percepisce, per poi sfruttarli a modo suo. Comunque, non sono campati in aria. Appartengono a quel bagaglio di sentimenti, e risentimenti, che la gente di confine accumula nei confronti di vicini di casa, da cui la separa una convenzione politica e burocratica, che ha alzato una rete, a volte invisibile, ma sempre presente nelle abitudini mentali. È la «ramina», come la chiamano familiarmente nel Mendrisiotto, regione, per circostanze geografiche, profondamente segnata proprio da questa barriera, tanto da diventare addirittura il simbolo di una dipendenza che si muove fra affinità e diversità, fra attrazione e rifiuto, fra benessere e disagio. Con effetti evidenti, sul piano economico, creando flussi di clienti di segno opposto, ma anche sul piano sociale e persino morale. Fra Chiasso, Balerna, la Valle di Muggio, luoghi della mia infanzia e adolescenza, e sto parlando di oltre mezzo secolo fa, la figura del contrabbandiere era accettata, con un misto d’indulgenza e ammirazione. Per non parlare, poi, dei riflessi sul piano culturale.

Questa condizione di dualismo, a cavallo di una frontiera, doveva animare, nell’ultimo dopoguerra, un intenso dibattito intellettuale, promosso, fra altri, da scrittori come Nessi e Pusterla o registi come Bruno Soldini, alle prese, appunto, con la realtà ambigua che si sviluppa intorno a un confine. Condizionata, per quel che concerne il Ticino, dalle vicissitudini di una politica italiana che, guardata attraverso la «ramina», si presta, e come, a perplessità e persino a condanne.

Ora, ad accentuare quest’atteggiamento critico del Ticino, sia ufficiale sia privato, nei confronti delle scelte politiche italiane, contribuirono, prima, gli sbandamenti fanfaroni del fascismo e, in seguito, il velleitarismo rivoluzionario del ’68: con il risultato di un’anti-italianità esacerbata, recentemente, dalla recessione, dal traffico, gonfiato da 63mila frontalieri, da una diffusa paura che è sempre cattiva consigliera ed è contagiosa. Ecco, dunque, che, per tornare al punto di partenza, lo slogan «prima i nostri» si fa largo, conquistando seguito, addirittura in Romandia, dove sta minando un rapporto che, nella convivenza elvetica, rappresentava un unicum: l’idillio, ormai storico, fra svizzeri francesi e Francia, considerata un punto di riferimento, e non soltanto culturale. Infatti, mentre è risaputo il distacco, persino d’ordine linguistico, che separa gli svizzeri tedeschi dalla Germania, patria del nazismo che minacciò la nostra integrità nazionale, sembrava incontrastabile l’implicita alleanza, sul piano dei sentimenti e delle consuetudini, fra i cantoni francofoni e la Francia, patria linguistica e culturale, e oggetto di una fedele sudditanza psicologica. Invece, qualcosa, in questo meccanismo di reciprocità ben funzionante, si sta rompendo.

Si tratta di un cambiamento rivelatore di nuove condizioni socio-economiche, di nuovi influssi ideologici e culturali, persino di nuove mode. La Francia, da cui erano arrivate conquiste insostituibili, la libertà, l’illuminismo, la tolleranza, ha cessato di essere una fonte d’ispirazione, creatrice di ammirevoli modelli di pensiero e di vita. «È diventata un vicino criticabile», come s’intitolava un ampio commento, pubblicato sulla «Neue Zürcher Zeitung», e firmato da Christophe Büchi, giornalista, filosofo e osservatore del costume, che opera dal vivo: svizzero tedesco d’origine, abita fra Champéry e Losanna. E da qui, registra, la crescente insofferenza di una regione che subisce l’invasione quotidiana di 160mila frontalieri, ovviamente indispensabili ma, in pari tempo, assillanti. Senza contare, poi, la presenza di un numero imprecisato di evasori fiscali francesi d’alto bordo. Altro che «douce France», è piuttosto l’immagine di una nazione, politicamente caotica, che esporta guai. Fatto è che questa sarebbe la fine confermata di un lungo idillio. Mentre, allude Büchi, potrebbe aprirsi un’inattesa stagione: la Svizzera tedesca che, adesso, allaccia rapporti di ottimo vicinato con i cittadini d’oltre Reno.