In casa si decide di iniziare l’estate tornando sul lungolago di Lugano, di domenica, a passeggiare, con tanto di aperitivo come ai tempi ante-covid. Posteggiamo al LAC e sbuchiamo sul desertissimo piazzale. Il sole accecante ci spinge, letteralmente, verso il lago e scattano pensieri rivolti indagare sul cruccio del turismo dopo il lockdown. Sul lato alberato c’è stato (è ancora in atto?) un intervento urbanistico, forse un po’ troppo «leggero», nel senso che se c’è un progetto, ancora non lo si indovina. Prevale il dubbio che il tutto sia in risposta a quanto avviato lo scorso anno dall’altro comune affacciato sul lungolago, Paradiso. Primo «input»: sembra stiano facendo affari i noleggiatori di natanti, aiutati dall’incredibile colore del lago (verde pantone 3375 o medium aquamarine, direi; pistacchio o menta per chi preferisce riferimenti meno tecnici). La speranza è che a marcare il nostro abbrivo con l’estate e con la ripresa turistica saranno nuovi colori. Una gelateria ha scippato il posto al chiosco dove ai tempi d’oro oltre a giornali e bibite si offrivano anche souvenirs e cartoline. Oggi non li cerca più nessuno. Tutto parte e arriva, le news e i ricordi, confezionato in digitale, quindi in diretta: smartphone puntato verso il lago o rivolto a un selfie e in pochi secondi attraversa tutto il mondo, documentando che sei «svizzero», che Lugano ti saluta con acque simili per colore a quelle dei fiumi himalaiani o dei laghi dell’Engadina. Altra novità: il negozietto di cappelli situato da tempo immemore a lato dell’imbarcatoio principale si propone qualche decina di metri prima, più piccolo e solitario, ancor più surreale! In strada transitano moto e alcune supercar con rombi decisamente arroganti, e si fa il tifo perché il lungolago nei fine settimana resti chiuso anche la domenica mattina (per chi ama la quiete) e non solo di sera (per la gioia di chi invoca struscio o movida).
Oltre il pontile centrale dei battelli gli interventi urbanistici fanno correre il pensiero a cosa si inventa altrove: Siviglia, Cascais e Marsiglia tanto per far esempi. Da noi prevalgono rappezzi e aggiunte progettuali, specchio di titubanze di chi a tavolino discute di nuovi poli, poi alla fine opta per i compromessi e rinuncia a osare qualcosa di creativo. Siamo davanti al Municipio e ai fontanoni emblemi di un turismo di inizio Novecento, nel mezzo di quello che urbanisticamente rimane il cuore della Lugano bella: la tratta che dal LAC arriva al Casinò Kursaal. Girando le spalle al Ceresio, sguardo e mente vedono la Lugano del 2020, quella che spera di uscire dalle crisi che si assommano puntando su arte e cultura, cioè all’incontrario rispetto al passato che proponeva sul Golfo i corpaccioni dei grandi alberghi come il Palace, il Beha, il Bristol, il Majestic. Alcuni resistono, pochi e poco considerati, quasi colpevolizzati. Quella Lugano si è disintegrata: prima ha vagheggiato nuove atmosfere di accoglienza che arrivavano sino a Piazza della Riforma e tentavano di andare oltre (ricordate i Mövenpick del Ciani e del Liceo?); poi sedotta e abbandonata dalle dorate atmosfere che hanno condecorato la preminenza delle banche sino alla fine del secolo scorso. Il declino ha lentamente fagocitato anche artigiani e piccoli commerci, costretti a emigrare in periferia, travolti dalla corrente di rialzi degli affitti che ancora prosegue le sue erosioni. Resiste, e si difende, solo quella che chiamo la «Lugano 8-17»: migliaia di impiegati, commessi, burocrati, funzionari e dirigenti chiamati a riempire i palazzi una volta «nobili» o di rappresentanza; una socialità «a ore» che sera dopo sera, fine settimana dopo fine settimana, limita ad orari di ufficio, la vitalità, quindi anche l’accoglienza e la socialità, del centro.
Non mi va di sconfinare nel politico, men che meno in alibi progettuali che ricicciano a rimorchio di emergenze o... scadenze elettorali. Meglio tornare al passeggio sul lungolago, schivando runner più o meno tonici impegnati nel loro rispettabilissimo rituale domenicale. Al Parco Ciani portale presidiato dall’ottocentesco organetto di Jörg, villa chiusissima, per la sete solo vedovelle e visitatori che guatano zone d’ombra più che piante e fiori. Quasi alla foce l’assembramento suggerisce una sosta. Seduto su una panchina, un po’ stufo di veder processioni, alzo la visuale e, su un ramo alto di un grosso platano, intravvedo un velo multicolore. Penso a un foulard sospinto dal vento. Alzandomi, vedo anche una gamba e indovino un manichino, innalzato o fatto volare fino a tre metri dal cielo. La visione quasi felliniana di quel manichino (già recuperato?) sembra suggerire che forse solo un artista (senza o con l’apostrofo) può aiutare politici, urbanisti e architetti a reperire quel che manca alla Lugano turistica: un po’ più di poesia.