Riscrivere la storia: necessità o sfizio?

/ 20.09.2021
di Luciana Caglio

A Londra, la statua in bronzo di Winston Churchill, in Parliament Square, è stata, una volta ancora, imbrattata da contestatori, che evidentemente ignoravano chi fosse quel signore, rappresentato con la bombetta e il sigaro, che contribuì a salvare l’Europa dalla minaccia hitleriana. Entrando meritatamente nella storia del XX secolo. Ora, e qui sta la presunta giustificazione degli imbrattatori, la storia di cui loro si considerano gli interpreti ha cambiato contenuti e modi d’espressione. Anche l’osannato Churchill aveva commesso errori diventando complice d’ingiustizie, insomma una leggenda da sfatare: su di lui pesa, innanzitutto, l’accusa ormai multiuso di razzismo. Perciò i monumenti, i ritratti, le scritte, che lo commemorano, ne devono recare le conseguenze. Lo statista inglese, del resto, è in buona compagnia. Nei corridoi e nelle aule delle università americane, i busti e i dipinti, dedicati a personaggi di un passato, anche remoto, comunque da depurare, sono esposti a un’ondata iconoclasta che non guarda per il sottile.

Ce n’è per tutti: a partire da Cristoforo Colombo, capostipite dei colonialisti, e da Shakespeare, illustre anticipatore del razzismo e dell’antisemitismo. È un’ombra che grava, ormai, su una serie interminabile di opere letterarie insigni e popolari, tipo La capanna dello zio Tom, Via col vento, Robinson Crusoe. Non risparmia neppure i disegni animati di Disney. E via enumerando, forme di svago, banali che non intendono trasmettere messaggi di sorta: divertono o annoiano, e basta. Se ne potrebbe concludere, sbrigativamente, che si tratta della solita americanata, che produce derive grottesche, da cui l’Europa riesce a prendere le distanze.

In realtà, il fenomeno revisionista ci concerne, inevitabilmente, e, non da ultimo in una Svizzera, considerata una sorta di caso speciale, per non dire un’isola felice, indifferente ai guai e agli stimoli altrui. Ora, proprio questo particolarismo elvetico si è prestato a interpretazioni e riflessioni di segno opposto e politicamente riconoscibile. Da un lato, un paese che della chiusura conservatrice e del tradizionalismo aveva fatto un motivo da prestigio e sicurezza. Dall’altro, invece, il culto di un’apertura europeista che sfocia addirittura nell’annientamento dei suoi confini territoriali. Cioè, la Svizzera centrale rappresenta «una comune regione alpina e non il nucleo originale di uno Stato elvetico già esistente». Insomma, quei contadini e artigiani medievali non hanno inventato nulla, si sono comportati come gli altri contemporanei europei.

È la tesi, sostenuta con coraggiosa convinzione e conoscenza di causa da Maurizio Binaghi, docente di storia al Liceo di Lugano 1 e impegnato, con un gruppo di collaboratori, in un compito persino rischioso: adeguare il manuale per le scuole medie a una nuova visione storica. Non campata in aria, ma frutto di approfondite ricerche. E così un testo da studiosi diffuso nelle scuole dell’obbligo, affronta il grande pubblico. Con possibili, anzi probabili, effetti sconcertanti sul cosiddetto cittadino medio. Insomma, una tesi, di per sé culturalmente difendibile, rischia di buttare all’aria sentimenti, abitudini, riti che appartengono all’immaginario collettivo, segnando appuntamenti simpatici nel calendario dei cittadini elvetici: il 1. d’agosto, con falò e fuochi d’artificio, la rievocazione del giuramento sul praticello del Grütli, forse leggendario, al pari dell’eroe Guglielmo Tell con la sua balestra, che forse non è esistito, in carne e ossa ma resiste come emblema rassicurante. 

Al novero appartiene, non ultimo, l’inno patrio, cantato da una nazionale di calcio che, con la sua stessa composizione, la dice lunga sulla realtà vera di un paese, capace a modo suo di proporre un esempio. Ovviamente, non concerne soltanto i privilegiati del pallone, di origine kossovara, serba, turca. Tocca, invece, le centinaia di migliaia di altri immigrati a cui la Svizzera, a sua volta cambiata, garantisce l’ospitalità dignitosa di una casa accogliente. Paradossalmente, è diventata una sua specialità, un «Sonderfall», usando un termine a cui Binaghi continua ad attribuire un significato negativo. Per necessità morale o sfizio culturale?