Avrà fatto il callo l’amico Alcide che su «Azione» disserta di sport e ogni tanto mi vede irrompere nel suo campo come un «flasher». Spero anche che i lettori sapranno togliere (o aggiungere) la tara, tenendo conto che uso l’inchiostro sportivo solo saltuariamente e che sono uno dell’altro secolo. Di sicuro non avranno difficoltà a convenire con me, guardando a quello che capita oggi in Ticino, che i riflessi dorati scarseggiano nei gironi dello sport. So benissimo che, come nell’economia e nella società in generale, anche nello sport ci sono dei cicli imposti da contingenze varie. Ma decisamente da troppo tempo in Ticino ci troviamo alle prese con fallimenti, recuperi o cali, e di riflesso siamo messi piuttosto male, in generale declino.
La colpa? Come sempre: di nessuno e di tutti, quindi anche dei media come da tempo si cicaleggia. Non è una novità che il mondo dello sport indichi o cataloghi i media tra gli animali feroci; il perché va forse ricercato in questa ambivalente analisi: «Quando un uomo vuole uccidere una tigre, la chiama sport. Quando la tigre vuole uccidere lui, la chiama ferocia». Ma più che arrovellarsi sulle colpe attuali, vale la pena chiedersi come diavolo abbia fatto, fino a pochi anni fa, lo sport ticinese a muoversi così disinvolto e dinamico, in posizioni di élite e anche di eccellenza, inviando atleti a vestire maglie delle nazionali in diverse discipline, nel calcio e nell’hockey, interessando anche i livelli meno popolari con lo sci, il ciclismo, il nuoto, la pallacanestro e così via.
Ciclo finito e che non tornerà? Chissà. Sarebbe però utile conoscerne cause o motivi, almeno per sapere come reagire al declino. Invece ci si incaponisce (tutti: dai presidenti agli allenatori, con la stampa perennemente incolonnata) a inseguire sceneggiate ormai quotidiane. Così, per inseguire le sue assurde utopie, lo sport ticinese è costretto a ingaggiare bande sempre più numerose di mercenari (ogni riferimento a «Prima i nostri» è casuale) perché, dicono tutti, non ci sono più gli atleti di una volta. Ma davvero mancano solo quelli?
Scrivo queste note dopo aver seguito, la domenica pomeriggio, un giornalista sportivo della Rsi specializzato in fondi (non in fondi di giornali, cioè editoriali; no: in fondicampo televisivi, praticamente l’inviato che a Mai dire goal chiamavano «raccattapalle per microfoni»). Era lì con un servizio sul FC Lugano al mare (4 giorni durante la pausa per la nazionale) in cui, come biscotti nel budino, c’erano interviste ai giocatori, ovviamente e rigorosamente riferite all’ennesima burrasca fra presidente e allenatore. Passato il filmato, ciacolando con il conduttore della trasmissione, l’autore avvisa, sereno come una pasqua, che quanto i giocatori hanno detto («non ci riguarda», «nessun problema», «tüt a posct», «siamo professionisti noi») poteva anche non essere vero. Ci siamo: pare che giornalisticamente valgano più le emozioni e le credenze di chi vende notizie che i fatti accertati e declamati. Ma se la verità è soltanto un «optional», ovvero una questione di secondaria importanza, quel servizio televisivo non rischia forse di essere un esempio di «post verità»? Caso fortuito di sicuro (difficile credere che si volesse favorire qualcuno), sufficiente però a far planare un sospetto: i giornalisti sportivi sono ancora quelli di una volta?
Il giorno dopo, oltre a un corsivo sulla prima del «Corriere» in cui il collega rubricista gioca, e bene, le sue carte contro gli atleti moderni – impegnati più a crearsi o a difendere una personalità fuoricampo che a meritare applausi sul campo – ecco una notizia ancor più pertinente al nostro tema: club e stampa, ancora una volta, indissolubilmente accapigliati. Invischiati tra le forche dei playout i dirigenti dell’HC Ambrì hanno pensato di coinvolgere nel momentaccio anche la stampa sportiva. L’hanno fatto stigmatizzando un presunto impegno dei media a destabilizzare l’ambiente, quindi a indebolire allenatore e giocatori, visto che ogni santo giorno si sfornavano soluzioni alternative alla guida tecnica della squadra.
Stavo pensando ai gaudiosi lanci mediatici dell’estate, dall’arrivo dei «grandi» rinforzi sino alle gioiose feste popolari, quando il presidente irrompe correggendo: sulle note di «ci hai creduto / faccia di velluto», comunica che aveva scherzato, voleva solo far provare ai giornalisti come si sta dopo una critica ingiustificata. La penitenza inflitta non è uno scherzo: «Scrivete pure tutto il male che volete del presidente, ma per favore, lasciate in pace giocatori e staff in queste settimane decisive». L’umanissimo episodio suggerisce un interrogativo: vuoi vedere che anche i presidenti non sono più quelli di una volta? E con tutte queste carenze, come potrebbe lo sport ticinese essere ancora quello di una volta?