Ridare respiro all’anima

/ 07.12.2020
di Lina Bertola

A tutti immagino sia capitato di sperimentare quella sana stanchezza del corpo che si prova dopo una lunga passeggiata nella natura o dopo una bella nuotata nel mare o al termine di una giornata di festa passata a cucinare per tutti. Una stanchezza cui sopraggiunge il riposo a offrire quelle benefiche interruzioni che scandiscono il tempo del vivere.
Ma di un’altra stanchezza, di una stanchezza assai diversa ci parla oggi il tempo del nostro vivere.

Un tempo in cui le interruzioni si fanno sempre più rarefatte o addirittura inesistenti, risucchiati come siamo dentro una mobilitazione permanente di gesti e pensieri, senza pause, senza discontinuità. In questo «tempo reale» che ha inghiottito le durate del tempo sono saltate alcune soglie del vivere e del suo senso. Smart work e Internet ci convocano dentro il flusso perpetuo di un agire senza confini e di un mercato senza orari. Viviamo nella più totale ubiquità e in un continuo agitarsi. I tempi del lavorare si mescolano sempre più spesso con quelli del riposo e anche il tempo libero si trasforma facilmente in una specie di lavoro. Dobbiamo divertirci e così ci illudiamo di portare da un’altra parte i nostri giorni. E invece siamo sempre qui, nella simultaneità e nell’ubiquità senza interruzioni.

Oggi si percepisce sempre più frequentemente una stanchezza cronica che si manifesta come fatica esistenziale, oggetto di ricerche mediche e psicologiche. Una fatica da gestire combattendo i disturbi del sonno o affidandosi ad integratori alimentari ormai assurti a mantra salvavita.

Questa fatica si manifesta nel corpo ma viene da un malessere profondo che invade il nostro mondo interiore, il nostro sentimento di interiorità. È una stanchezza faticosa da accettare perché nasce nel giostrare inarrestabile dell’anima, sempre più prigioniera del bisogno di essere efficienti, performanti, sempre all’altezza della situazione. Questo continuo agitarsi dentro i nostri giorni risponde al bisogno di obbedire a noi stessi, al nostro desiderio di esistere, di essere presenti sulla scena del mondo, prima ancora che al bisogno di obbedire alle pressanti richieste del grande mercato della vita.

In questi interminabili giorni della pandemia questa stanchezza faticosa si è fatta ancor più dolorosa e ha assunto il volto triste di uno spaesamento sempre più padrone delle nostre vite.

In questa situazione strana e straniante, che sembra non avere una fine, ci sentiamo tristi e stanchi negli strati più profondi delle nostre coscienze; stanchi di quella stanchezza, così ben raccontata da Fernando Pessoa, che non è pesante come la stanchezza del corpo ma riguarda la nostra intelligenza del mondo, ed è la più terribile: «un peso della consapevolezza del mondo, un’impossibilità di respirare con l’anima».

Ma è possibile ridare un respiro all’anima? È possibile scoprire, in questo nostro spaesamento, risorse inattese? Come dire: è possibile dare un altro significato alle parole? La domanda non è priva di senso perché le parole sono la casa in cui abitiamo, sono la nostra comune dimora da cui nasce il racconto della realtà e del nostro modo di stare al mondo. Cambiando le parole potremmo forse cambiare il mondo, o perlomeno la nostra percezione e il modo di abitarlo.

Il dover «stare a casa», ad esempio, può raccontare un limite, un’interruzione, una perdita di legami, ma anche un incontro con la propria casa interiore, un’esperienza di intimità, sorgente di nuove consapevolezze e nuove aperture. La stessa cosa può accadere alle parole che raccontano la solitudine dello «stare soli», quella solitudine accolta e coltivata del sostare con sé stessi che può rovesciare il racconto doloroso del «sentirsi soli».

Proviamo allora a dare altre parole anche alla stanchezza. A riconoscerla innanzitutto come condizione costitutiva della nostra umanità, come lo sono anche la vulnerabilità e la finitudine: espressioni dell’umano da accogliere in noi come la potenza di un limite che sa donare senso al vivere. Proviamo ad abbracciare questa stanchezza, a sentirla parlare con la voce del corpo, troppo spesso inascoltata. Una voce che racconta finalmente la possibilità di un’interruzione, la possibilità di una sosta, e suggerisce il desiderio di contemplazione. L’etimo della parola «contemplazione» ci ricorda lo sguardo attento di chi osservava il volo degli uccelli in un orizzonte di cielo (templum) per trarne presagi.

Contemplare: colorare di stupore la nostra stanchezza e, sporgendoci dalla finestra più intima, immaginare un futuro. Così, la fatica del presente può trasformarsi in un invito a prendersi cura della propria vita.