Per strada. Un uomo e una donna, entrambi di una certa età, s’incontrano, si salutano; e lei attacca, sorridendo: «Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini!...». E lui continua: «Solo, ai piedini provati dal rovo / porti la pelle de’ tuoi piedini». E anch’io, involontario ascoltatore del dialogo, continuo mentalmente la recita dei versi: «...porti le scarpe che mamma ti fece...».
Poi rifletto: tutti e tre siamo ormai di una età avanzata, apparteniamo a una generazione per la quale, a scuola, era d’obbligo leggere questa poesia del Pascoli; e, soprattutto, era d’obbligo mandarla a memoria. Più di mezzo secolo è passato da allora, ma il ricordo di quella poesia rimane inciso nella memoria.
Non credo che nelle scuole d’oggi si pretenda ancora che gli allievi imparino poesie a memoria; anzi, mi pare che la memoria stessa sia una facoltà progressivamente in disuso. Certo, si sa bene che una facoltà che non venga esercitata non si sviluppa e decade; ma nella mentalità d’oggi sono altre le facoltà che vanno sviluppate e rafforzate con l’esercizio: l’agilità di movimento, la robustezza della muscolatura, la velocità dei riflessi nei videogiochi, la destrezza nell’uso dei nuovi media tecnologici. Il mondo cambia, cambiano valori e modi di vivere. Si può rimpiangere un mondo che svanisce, ma non avrebbe senso rifiutare quello nuovo che nasce.
Del resto, è sempre stato così ad ogni grande svolta storica. È famoso il mito platonico: quando il dio Teuth propose a Thamus, sovrano d’Egitto, l’invenzione della scrittura, gliela presentò come il «farmaco della memoria»; affidando i ricordi alla scrittura su pietra o su papiro li si sarebbe preservati dall’oblio. Ma Thamus giunse invece ad un giudizio opposto: l’uso di una memoria esterna avrebbe indotto l’uomo a rinunciare a quella interiore, avrebbe indebolito la facoltà umana di conservare i ricordi.
Questa profezia platonica assume oggi molto più valore di verità di quando fu scritta, ventiquattro secoli fa. Oggi i supporti informatici rimpiazzano le memorie individuali con una facilità e un’efficacia di gran lunga superiori a quelle della scrittura su carta. Lo scrittore Gesualdo Bufalino, negli anni Ottanta del secolo scorso, considerava la civiltà come la storia di sforzi intesi a esentarci dalla memoria, sostituendola con simulacri e tecniche diverse – dalla scrittura ai dipinti, dai monumenti alle fotografie; e concludeva: «Mi sbaglierò ma fra qualche millennio l’umanità avrà perso, come ha perso l’olfatto antico degli ominidi, il senso del ricordare». Quando Bufalino scriveva queste parole le memorie informatiche avevano da poco fatto la loro apparizione e la loro capacità di archiviazione era ben poca cosa – qualche megabyte soltanto, una dimensione ridicola rispetto a quelle d’oggi. Oggi la memoria della Rete contiene milioni di libri, miliardi di immagini, di fotografie, di dipinti, di filmati: la memoria dell’umanità intera è lì dentro. Ma è davvero una memoria?
È più corretto dire che è una massa enorme d’informazioni. La memoria vera – quella umana – è un’altra cosa. L’informazione, da sola, non ha alcun senso: acquista senso solo quando qualcuno la legge e la decifra dentro di sé. Siamo noi che conferiamo il senso. Così è anche per le immagini: consideriamo ad esempio un capolavoro come la Crocefissione di Grünewald, nella pala d’altare di Isenheim: un cadavere inchiodato a due pali incrociati, contratto nel dolore. Questo vede un occhio non sorretto dalla memoria: un’immagine di per sé per nulla invitante, anzi, una crudele e sgradevole esibizione di sofferenza. Ma per chi decifri il quadro dentro la cultura accumulata nella memoria, quel dolore dipinto ha profondi significati e valori simbolici: il dio fatto uomo, l’origine del cristianesimo, la speranza che nasce dalla disperazione...
Ecco perché l’informazione richiede pur sempre una memoria soggettiva – ossia, una cultura all’interno della quale la singola informazione prende senso. Da Aristotele a Cicerone a Tommaso, via via fino a ieri, si è sempre esaltata l’arte della memoria; anche l’immaginazione, dicono Vico e Hobbes, è sostenuta dalla memoria. Ma oggi la pedagogia antinozionistica sembra condannare ogni memorizzazione di informazioni (che sia una sorta di autogiustificazione di pedagogisti di scarsa cultura?). Ma forse, più semplicemente, i tempi sono cambiati: la memoria collettiva, quella in Rete, sta subentrando a quella individuale. All’individuo spetta ora il compito di dimenticare.