Quo vadis progresso?

/ 27.09.2021
di Lina Bertola

Mi è stato chiesto di approfondire l’idea di progresso nelle sue diverse accezioni, nelle sue luci e nelle sue ombre. Lo faccio volentieri anche perché ciò mi permette di rendere più esplicito il titolo di questa mia rubrica.
«Approdi e derive»: tentare di leggere i problemi e le contraddizioni del presente come possibili derive rispetto agli approdi che hanno segnato la storia, approdi riusciti o anche solo pensati come mete possibili.

Nelle contraddizioni del presente, e non solo nelle immani tragedie umanitarie, quante derive, quanti approdi mancati: situazioni che possiamo anche accettare, e perfino giustificare, con la grammatica della legalità o con le interpretazioni del mainstream, ma situazioni che sentiamo inopportune proprio perché hanno perso di vista il loro porto.

Prestare attenzione alle scelte e alle rinunce che hanno segnato il cammino della nostra civiltà permette di osservare le forme del nostro stare al mondo prendendo le distanze dallo stile di pensiero oggi dominante: un pensiero che descrive la realtà quasi fosse un dato di fatto, un’evidenza ineludibile su cui non abbiamo più alcuna presa.

Considerare gli aspetti problematici del presente come derive che ci hanno allontanato e ci allontanano dalla meta è come imbarcarsi su un veliero di cui possiamo sempre correggere la rotta.
Navigare tra approdi e derive permette di aprire uno spazio di resistenza al disincanto e alla rassegnazione; permette di ridare dignità e senso al futuro, ovvero ad un altrove possibile.
Si tratta di una scelta etica non irrilevante perché oggi il futuro, con la sua carica di progettualità, sembra scomparso dalla scena, inghiottito da un presente che lo concepisce solo come continuo rinnovamento di sé, senza immaginare alcuna meta che ci porti da un’altra parte.

Eppure, in epoca moderna il futuro è stato pensato come un altrove, come un tempo altro verso cui tendere, come il luogo di un progetto nutrito dalla fiducia nella possibilità di incamminarci verso il meglio, sia come individui sia come società.
Queste atmosfere, che culminano nella civiltà dei Lumi, alludono ad una evoluzione dell’uomo e della società in cui prende forma l’idea di progresso. Anche il linguaggio ce lo ricorda: fare progressi significa migliorare.

Oggi, con il futuro imprigionato in una continua ripetizione del presente, questa idea di progresso perde la sua essenza. Il cosiddetto progresso tecnologico è in fatti solo un nome abusato con cui sdoganare felicemente il potenziamento dei suoi mezzi, condividendo, ancor più felicemente, il mantra dell’innovazione. Bloccati sul presunto valore di questi mezzi tecnologici, perdiamo contatto con il valore che nutre l’idea di progresso, ovvero con l’orizzonte dei fini, con le finalità del vivere e del convivere.
Tutto ciò a me pare l’indizio potente di una profonda deriva su cui vale la pena riflettere.

E così, ancora una volta, mi chiedo: che cosa ne abbiamo fatto del nostro progetto di umanità? Proprio attorno a questa domanda sembrano infatti delinearsi ulteriori derive.
In un recente saggio davvero illuminante, Marco Revelli ripercorre la storia del concetto di umanità fino a porci di fronte a quella che appare oggi come la sua ultima inquietante deriva, una vera e propria «frattura» in cui, del compito di migliorare l’umano, si impadronisce la tecnologia.
È il progetto del cosiddetto trans-umanesimo, della sua ambizione trasformativa, in cui si esprime compiutamente la volontà di potenza dell’uomo. È l’ultima spiaggia di quell’antropocentrismo che fin dall’antichità ha segnato, nel bene e nel male, la nostra cultura.

I primi segnali di questo «superomismo tecnologico» riguardano la missione della medicina: un sapere riparativo del vivente danneggiato che si trasforma in tecnica, o insieme di tecniche, che mirano a potenziarlo. «Non più ripristino di un naturale sano – scrive Marco Revelli citando gli studi di Luc Ferry – ma metamorfosi verso un inedito ibrido, ottenuto inserendo nel corpo biologico umano componenti artificiali». E aggiunge: «non solo al fine di compensare mutilazioni o inabilità ma anche al fine di ottenere capacità superiori in termini di potenza fisica e mentale».
In questo modo sparisce una soglia, e voilà: il «progresso» è servito!

Poi però ci siamo noi, noi che andiamo a camminar nel bosco, noi che cresciamo i nostri figli, e lavoriamo, amiamo, soffriamo, qualche volta per fortuna sogniamo. E in tanti frammenti di umana quotidianità custodiamo, forse senza saperlo, un altro progetto.
Ma quanta forza ha la nostra voce, il nostro sentimento di interiorità, per resistere allo spirito del tempo? Riprenderò la domanda, con qualche possibile risposta.