La pandemia ha riportato alla ribalta l’annosa questione del rapporto tra la politica e la scienza, tra la democrazia e la tecnocrazia. Sia nella sua forma più antica, identificata con l’assemblea di tutti i cittadini nell’agorà, sia nella forma contemporanea, fondata essenzialmente sulla rappresentanza parlamentare, la democrazia presuppone la competenza: tutti i titolari dei diritti politici devono essere in grado di capire la posta in gioco e di regolarsi di conseguenza. Sul piano formale, «il comando del popolo» non discrimina; non distingue e separa in base al sesso, al censo, all’intelligenza, al titolo di studio, alla confessione. Tuttavia, come ben sanno le donne di questo paese, per raggiungere tali risultati e per smantellare ostacoli e pregiudizi – e qui ci limitiamo alla sfera occidentale – sono stati necessari decenni di mobilitazioni. Alla fine ha trionfato il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, ma quanta fatica...
La democrazia ha dovuto tuttavia fare i conti con un’obiezione fondamentale fin dal suo sorgere nelle città dell’antica Grecia: che non tutti gli individui adulti disponessero del bagaglio intellettivo e culturale richiesto per poter deliberare con cognizione di causa. Su questioni banali, o ritenute tali, la questione non si poneva, ma non appena si entrava in affari complessi l’obiezione scattava. Non era forse meglio delegare la soluzione ai sapienti e ai filosofi (nel linguaggio odierno, ai comitati di esperti e ai tecnocrati)? Che ne sapeva l’uomo della strada di faccende pubbliche che scavalcassero il perimetro della sua casa, temi come la politica estera, i trattati di guerra e di pace, l’organizzazione dell’esercito?
Nelle società contemporanee, e in particolare in quella elvetica, gli interrogativi e i dubbi di questa natura si sono moltiplicati, rovesciando sul cittadino-superman un carico di responsabilità sempre più greve. A scadenze regolari, iniziative e referendum lo hanno invitato ad esprimersi su temi quali gli indirizzi di politica economica, la sicurezza, le alternative energetiche, le biotecnologie e via di questo passo. Dove invece la chiamata all’urna è meno frequente, si è preferito affidare il timone ai governi tecnici. Nella vicina Italia la crisi epidemica ha messo fuori gioco un’intera classe politica, che in pratica si è auto-arresa. Era già accaduto in passato, con l’appello ai «tecnici», ovvero ai banchieri provenienti dalla Banca d’Italia o dall’università Bocconi: Ciampi (1993-1994), Dini (1995-1996), Monti (2011-2012). Ora la questione si è riaffacciata con la nomina di Mario Draghi, già presidente della Banca centrale europea, esortato dal presidente Mattarella a sbrogliare la matassa.
Anche il Ticino, in anni non remoti, bussò alla porta di un «tecnico» per evitare che il cantone precipitasse nel buco nero del dissesto finanziario. Accadde nel 1983, allorché il Partito liberale radicale decise di candidare al Consiglio di Stato Claudio Generali, economista e direttore aggiunto della Banca dello Stato. Missione: risanare i conti pubblici, compito ingrato ma inderogabile. «Durante gli anni di crescente smarrimento della scorsa legislatura (1979-1983) è emersa gradatamente, sino ad imporsi con la brutale evidenza di cifre orrende, l’esigenza politica di deviare le finanze pubbliche dalla rotta di collisione sulla quale si sono turbinosamente incanalate». La nuova compagine – sottolineò Generali – avrebbe dovuto insomma fare i conti con «angosciose opzioni» e «ardue scelte», pena lo sfilacciamento del tessuto sociale.
Il giovane capo del Dipartimento delle finanze e dell’economia non deluse le attese; anzi, portò a termine il risanamento prima della scadenza naturale del secondo mandato. Nel 1989 il «banchiere prestato alla politica» decise infatti di lasciare l’incarico per assumere la direzione della Banca del Gottardo. Decisione criticata dalla stampa non liberale per i tempi e i modi, ma non per la sostanza. Anzi, si riconosceva a Generali «di avere contribuito – in prima persona – a raddrizzare una situazione finanziaria del Ticino ch’era giunta al limite del tracollo».
Morale: fa bene un sistema democratico a reclutare negli esecutivi gli specialisti nelle «ore più buie» determinate da collassi economici o sanitari. È pure segno di saggezza appoggiarsi agli esperti, a «coloro che sanno»; ieri ai banchieri, oggi ai virologi, ai medici e ai farmacisti. Il tutto deve però avvenire nella completa trasparenza, con annessa la clausola che ad emergenza finita il potere ritorni nei consueti canali della dialettica politica.
Qui ci serve un banchiere
/ 15.03.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti