«Questo va avanti a suonare, che faccio?»

/ 23.01.2023
di Bruno Gambarotta

Aprile 1962, inizio a lavorare come cameraman al centro di produzione della Rai a Torino. Lo studio televisivo al quale sono stato assegnato si prepara a ospitare il concerto di Arturo Benedetti Michelangeli. È il primo – e sarà anche l'ultimo – che il grande pianista abbia accettato di registrare per una televisione italiana nata solo otto anni prima e per ora in bianco e nero. Tutto il personale impegnato nelle riprese viene preparato al grande evento dal nostro direttore: il maestro è sensibilissimo, è un grande artista, il più grande pianista vivente, ha più volte interrotto dei concerti per il colpo di tosse di uno spettatore. Fate silenzio assoluto, state immobili e se proprio dovete muovervi fatelo in punta di piedi e mai quando il maestro sta suonando. Vi saranno date delle pantofole; indossatele solo nello studio e ricordatevi di restituirle al termine delle riprese. Si lavora dalle 14 alle 19. È un lunedì, tutto è pronto, il maestro si presenta puntualissimo: siamo in aprile, fa caldo ma lui indossa un maglione nero dal collo alto. Un modello diventato di moda quando due anni prima Umberto Orsini ne “La dolce vita” ne aveva indossato uno bianco. Una vistosa sciarpa gli avvolge la gola, i suoi due capi gli scendono sul petto e sulla schiena, le punte toccano il pavimento. Gli uscieri aprono solleciti le porte al maestro che avanza con passo deciso fino al centro dello studio, si guarda attorno, individua il suo interlocutore nel nostro direttore che accorre sollecito. I due confabulano. Il maestro si volta e imbocca la strada del ritorno. Il direttore ci spiega che il grande pianista ha mal di gola e che in quelle condizioni non può certo dare il meglio di sé. A domani. Nessuno di noi osa dare voce al pensiero che il pianoforte lo suoni con le mani e non con la gola. Il giorno dopo, martedì, alla stessa ora, il maestro ha la medesima tenuta, senza la sciarpa ma con un vistoso paio di occhiali scuri. Si replica l'ingresso. Si replica la scena. I due confabulano. Il maestro conosce ormai la strada del ritorno. Il direttore: il più grande pianista di tutti i tempi è afflitto da un fastidioso orzaiolo che lo tormenta e gli impedisce di dare il meglio di sé. A domani. A domani.

Terzo giorno di studio, mercoledì. Arturo Benedetti Michelangeli arriva e questa volta non cerca con lo sguardo il direttore ma va direttamente al pianoforte. Il «suo» pianoforte, uno Steinway&Sons da Gran Concerto che il «suo» accordatore ha messo a punto in dieci ore di accanito lavoro, saltando anche il pranzo. Si chiamava Antonio Cuconato, a sua volta un mito, conosciuto come «la terza mano del pianista». Nel mese di aprile del 2003, quando aveva già 94 anni, al volante in piena notte era finito con l'auto in un torrente. Restando illeso. Lo ritrovano solo a mattina inoltrata. «Perché non hai chiesto aiuto?» gli domandano. Risposta: «Era tardi, non volevo disturbare».

Torniamo al grande pianista che si accosta al suo pianoforte. Solleva il coperchio della tastiera e inizia a saggiare lo strumento. Fa delle scale, prova la pedaliera, batte e ribatte sui tasti estremi della destra, le note più acute. Tratteniamo il fiato. Il maestro scuote più volte il capo. Non va, non va. È impensabile suonare su uno strumento in quelle condizioni. Il sublime interprete di Debussy richiude il coperchio e se ne va. Domani, domani sarà la volta buona. Uscendo passa davanti a un operaio. E' un uomo tutto d'un pezzo, di vecchio ceppo piemontese. Lascia che il maestro si allontani, scuote la testa e sentenzia: «Quello lì non è mica capace di suonare il piano» Per la cronaca, il maestro, giunto al quarto giorno, ha poi suonato senza problemi. Non solo. Terminate le riprese, ha continuato a pestare sui tasti. Sarei rimasto ad ascoltarlo ma il direttore ha imposto a tutti di abbandonare lo studio e di non disturbare l'artista. Che ha proseguito per ore. Alle 23 il portiere ha telefonato al direttore: «Questo va avanti a suonare, io devo chiudere, cosa faccio?». «Per l'amor del cielo no! Stia fermo, le paghiamo tutti gli straordinari». Ha poi chiuso il coperchio pochi minuti prima di mezzanotte.

Il Nostro è diventato una leggenda non solo per la sua immensa bravura ma anche per i tanti episodi veri o leggendari costruiti attorno alla sua figura. Uno fra i tanti suscita la nostra simpatia, mi è stato raccontato da un testimone attendibile. Siamo sempre a Torino. Dopo il concerto all'Unione Musicale nella sala del Conservatorio, il Maestro è invitato a una cena organizzata in suo onore in una villa in collina dalla moglie di un grande industriale. Dopo il dessert e i caffè la padrona di casa si alza, va verso il fondo della sala, tira via un sipario nero che teneva nascosto un pianoforte e annuncia: «Adesso il maestro ci delizierà con la sua arte sublime». Arturo Benedetti Michelangeli si alza, tira fuori dalla tasca il portafoglio, ne estrae un biglietto da dieci mila lire, lo posa sul tavolo dicendo: «Questo è per la cena». E se ne va.