Questioni di vita o di morte

/ 28.05.2018
di Franco Zambelloni

Due episodi di morte hanno avuto molto rilievo nelle cronache recenti: il primo è stato il caso del «piccolo Charlie», un bambino di otto mesi affetto da una malattia degenerativa incurabile, alla vita del quale i medici inglesi hanno posto fine interrompendone l’alimentazione artificiale. Il secondo episodio è quello dello scienziato australiano David Goodall, venuto in Svizzera per mettere fine alla sua lunga vita (104 anni) grazie al suicidio assistito, che nel suo Paese non è permesso.

Quello che sconcerta, confrontando i due casi, è l’evidenza della loro contradditorietà. Nel caso del piccolo Charlie – che evidentemente non poteva avere alcuna facoltà deliberativa – i genitori non ne volevano la morte: insistevano per quello che, a giudizio dei medici, sarebbe stato un inutile accanimento terapeutico. Avrebbero voluto portarlo negli Stati Uniti per tentare una terapia sperimentale, giudicata comunque impossibile dai medici preposti al giudizio: la sua malattia genetica impediva la rigenerazione delle cellule causando il deperimento progressivo della muscolatura e del sistema nervoso, con le conseguenze facilmente immaginabili – dalla difficoltà a respirare e ad alimentarsi alla crescente incapacità di movimento. Ma i genitori non volevano rinunciare alla speranza e rifiutavano che si ponesse termine alla vita di Charlie, o – più esattamente – al suo prolungamento artificiale.

Diverso e opposto è il caso di David Goodall: non era malato, a parte il decadimento inevitabilmente dovuto ai suoi 104 anni di vita (una caduta aveva poi reso più difficile la sua mobilità). La vita, per lui, aveva perso di significato: voleva morire, ma un suo tentativo di suicidio era fallito. In Australia però l’eutanasia non è legalmente riconosciuta; così Goodall ha affrontato il viaggio in Svizzera, e a Basilea, con l’aiuto dell’associazione Exit, ha potuto praticarsi l’iniezione letale.

Ecco le contraddizioni. Al bambino i medici impongono la morte – non voluta dai genitori – e l’Alta corte di giustizia londinese la autorizza. Al vecchio scienziato che vuole morire la legge australiana lo vieta. Ed è così in tutto il mondo, tra legislazioni che ammettono il suicidio assistito e altre che lo rifiutano. E a intervalli ricorrenti, nuovi casi tornano a sconvolgere l’opinione pubblica: rimangono nella memoria figure come quelle di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro – protagonisti drammatici di strazianti agonie prolungate per legge.

Il diritto di vivere o di morire è dunque tra i più controversi, anche se si sa da sempre che ogni nascita è anche una condanna a morte: la morte fa parte della vita, ne è il destino ultimo. Perché non lasciare a ciascuno la libertà di decidere il proprio destino? Eppure sin dall’antichità il suicidio è stato spesso considerato un reato, in base alla convinzione che la vita non appartiene solo all’individuo, ma anche alla comunità di cui fa parte: non potendo punire il colpevole, ormai scomparso, la punizione colpiva allora i parenti rimasti, per lo più con la confisca dei beni. Per tutto il Medioevo è valso il principio che la vita è un dono di Dio e che Lui solo la può togliere (nel XIII canto dell’Inferno Dante imprigiona i suicidi nei tronchi di una foresta flagellata dalle Arpie). Oggi, con il cambiamento culturale e morale, in Occidente il suicidio non è più considerato un reato: ma sono ancora pochi i Paesi che – come la Svizzera – prevedono la possibilità di un suicidio assistito, ossia di un aiuto per i malati terminali che non intendono prolungare un’inutile sofferenza.

Nel 1906, ad Ascona, il medico psicanalista Otto Gross diede a Lotte Hattemer, che soggiornava nella comunità alternativa del Monte Verità, il veleno col quale la donna si tolse la vita. L’episodio fu poi oggetto di un’inchiesta giudiziaria. In una lettera del 1913 Gross spiegò che Lotte Hattemer aveva deciso di morire e non intendeva recedere dalla sua decisione; Gross tentò di convincerla a desistere, poi, non riuscendoci, la aiutò, per evitarle di morire «in modo tremendo e doloroso». «La mia intenzione – si legge in quella lettera – era solo quella che non morisse in maniera orribile. Sono ormai passati sette anni da allora; non mi sono mai pentito di quello che ho fatto».

Chi decide di porre fine alla propria vita lo fa, ovviamente, perché il lungo soffrire gli diventa insopportabile: il mecenate rinascimentale Vespasiano Gonzaga, duca di Sabbioneta, sul letto di morte pronunciò queste ultime parole: «Sono guarito».