Questa volta cerchiamo di essere furbi

/ 30.04.2018
di Natascha Fioretti

Di recente ho avuto il piacere di chiacchierare con Erling Kagge, editore, esploratore e scrittore norvegese. Abbiamo parlato della sua esperienza del silenzio ma soprattutto della sua necessità di spiegare alle sue tre figlie che c’è una dimensione altra che vale la pena conoscere al di fuori dell’universo tecno-digitale degli smartphone e di internet. In particolare, l’esploratore norvegese punta il dito contro quell’élite ricca e formata della Silicon Valley che, da una parte, racconta di voler migliorare il mondo, dall’altra hackera i nostri cervelli e si arricchisce a nostro discapito. E non va molto lontano Massimo Gaggi nel suo recente saggio uscito per Laterza, Homo Premium. Come la tecnologia ci divide, quando racconta la fine dell’età dell’innocenza della Silicon Valley (lo scandalo Cambridge Analytica insegna).

La banda dei fantastici quattro, Google, Amazon, Facebook e Apple condividono la stessa logica, mostrano un apparente disinteresse per il profitto dei loro leader e l’intenzione di fare del mondo un posto migliore ma in verità sposano impostazioni sempre più dichiaratamente capitaliste abbandonando le visioni ecumeniche ed egualitarie originarie. E qui, l’editorialista del «Corriere della Sera» fa un bel parallelo quando dice che i sultani del silicio non sono molto diversi dai robber barons, i baroni ladroni, gli imprenditori dell’Ottocento rapace che ammassavano grandi quantità di denaro, costruendosi delle enormi fortune personali, con la differenza che l’impero Big tech raggiunge i suoi obiettivi di business trattando i suoi utenti non come esseri umani ma come ammasso di dati, polverizzando la privacy e rendendo il mondo meno privato, meno individuale, meno creativo e meno umano. In soldoni, stiamo assistendo alla fine dei geni del web che predicano bene e razzolano male accumulando ricchezze enormi e monopoli di mercato mentre il reddito medio dei cittadini ha smesso di crescere da decenni. 

È fondamentale allora avviare una riflessione collettiva per non sottovalutare il tremendo impatto che la rivoluzione digitale sta avendo sui rapporti sociali, sulla politica, sulla salute, sulla cultura e, soprattutto, sul lavoro dell’uomo. Mentre le agende politiche dovrebbero avere il coraggio di limitare questi monopoli visto che la formula, concentrazione di ricchezza e potere tecnologico, rappresenta una seria minaccia per la democrazia. E, dato che siamo in tema di riflessioni collettive, urge, in prospettiva, farne una seconda sulla nostra visione sociale e culturale dell’idea di lavoro. 

Secondo Geoff Colvin, editorialista di «Fortune», più che cercare disperatamente di salvare lavori e professioni dalla prevedibile evoluzione tecnologica dei robot, dovremmo porci una domanda: quali attività vorremmo vedere sempre svolte da altri esseri umani? Dobbiamo insomma iniziare a definire fino a dove vogliamo spingerci se non vogliamo essere travolti o, addirittura, diventare schiavi dell’intelligenza artificiale. Per Colvin ci sono varie attività come la gestione dei rapporti interpersonali e la persuasione tramite lo storytelling che richiedono fattori umani non replicabili da una macchina. Uno su tutti l’empatia, che per il giornalista è lo skill critico del XXI secolo. Per Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore al MIT di Boston con esperienze in Microsoft, Apple e Google, «l’intelligenza artificiale può essere più potente di quella umana ma è priva di sensibilità, empatia, senso comune e capacità di ragionamento critico». Per fortuna, vien da dire. Sarà per questo che aziende come Google non assumono più soltanto ingegneri e matematici ma anche molti umanisti.

Intanto però, in previsione di un futuro in cui le nostre vite sempre di più saranno guidate da algoritmi e intelligenze artificiali, e memori delle esperienze fatte fin qui, decidiamo subito fino a dove siamo disposti a spingerci, quanto siamo disposti a perdere in nome di una tecnologia che sta portando con sé non solo rose ma anche perdita di posti di lavoro e profonde diseguaglianza economico-sociali.