Come ogni anno, l’arrivo dell’estate inaugura una stagione di grandi promesse per ogni appassionato di musica pop-rock – ovvero, il periodo dei grandi festival all’aperto, manifestazioni della durata di più giorni i cui fittissimi cartelloni vedono esibirsi un artista dopo l’altro davanti a vere e proprie folle oceaniche; e quest’anno, le maggiori manifestazioni in territorio svizzero appaiono particolarmente spettacolari – come nel caso dello Zürich Openair, che può contare su nomi del calibro delle popolari band dei The Killers e Florence + The Machine, o l’ormai celeberrimo Moon and Stars locarnese, stavolta responsabile della calata sul Ticino, tra gli altri, di One Republic e Tom Odell.
Questo porterebbe istintivamente ad affermare che eventi come questi, in grado di richiamare ogni estate svariate migliaia di spettatori nelle località interessate, possano considerarsi una benedizione per turismo ed economia locale; eppure, negli ultimi anni, complice la diffusione capillare del pensiero «green» e una rinnovata consapevolezza nei riguardi di tematiche legate alla sostenibilità e al cambiamento climatico, gli open air festival hanno cominciato a essere visti come fonte di molteplici controversie e problemi che, agli occhi di molti, superano ampiamente i vantaggi.
In realtà, anche in passato le grandi manifestazioni musicali sono state sovente messe sotto processo, principalmente per via dei rischi legati alla presenza delle enormi folle che tali eventi richiamano; chi non ricorda la tragedia del festival danese di Roskilde (2000), quando ben nove spettatori perirono schiacciati nella calca? Oggi, naturalmente, al terrore atavico che ogni tipo di assembramento suscita nella mente di molti (incluse le autorità incaricate di mantenere ordine e sicurezza) si aggiungono gli effetti dell’esperienza pandemica, responsabile di aver acuito la diffidenza dell’opinione pubblica bollando qualsiasi contesto di overcrowding come possibile veicolo di contagio; e neppure il fatto che i festival estivi si svolgano all’aperto ha impedito l’insorgere di nuove critiche, stavolta legate proprio agli scenari prescelti per le varie manifestazioni.
Così, se le enormi quantità di spazzatura non biodegradabile (soprattutto plastiche) che ogni evento outdoor si lascia alle spalle danno agli ecologisti più di qualche grattacapo, la «scia di devastazione» del post-festival comprende ben altro: oltre ad altissimi consumi energetici e innumerevoli problemi logistici (traffico automobilistico fuori controllo e forti disagi per i residenti locali), le conseguenze del passaggio di migliaia di persone, accampate per giorni interi su prati inermi, comportano anche danni alla flora e fauna locali, inclusi inquinamento acustico e la produzione di scorie spesso difficili a smaltirsi. E questo, naturalmente, senza tener conto dell’enorme dispendio di denaro e risorse che, sempre più spesso, viene vanificato da episodi di prolungato o violento maltempo, davanti ai quali gli organizzatori sono totalmente inermi.
Eppure, al di là di tutte queste ampiamente giustificabili considerazioni, non si può negare che i grandi festival rock all’aperto costituiscano, ormai da decenni, elemento vivo e pulsante della nostra cultura popolare: fin dai tempi della leggendaria «tre giorni di pace e musica» di Woodstock, l’immaginario collettivo ha avuto grande riguardo per simili occasioni – in cui, forse con un po’ di ingenuità, si immagina che l’atto di riunirsi in gran numero in nome dell’arte musicale, da sempre in grado di unire le masse, possa creare una sorta di «egregoro» tale da trasmettere positività e benessere; e magari, perché no, perfino cambiare il mondo.
Alla luce di tutto ciò, il provvedimento più auspicabile consisterebbe forse nel ricercare nuove vie per aggirare quegli ostacoli pratici che, all’interno del contesto e delle sensibilità odierne, rendono tali dinamiche di aggregazione poco sostenibili – così da non cadere nel facile inganno di ignorare il cosiddetto «fattore umano» e le sue innate necessità; ricordandoci come, per molti di noi, beneficiare del liberatorio atto di unione rappresentato dalla grande musica dal vivo sia, ancor oggi, davvero importante.