Terzo capitolo del trattato sulla «torinesità». La fascia dei miei concittadini che viaggiano allo scopo di accumulare esperienze da raccontare al ritorno è molto ampia. Chi compra un viaggio organizzato «tutto compreso» chiede qualche variazione del programma, tanto per personalizzarlo. Trascorre interi pomeriggi in agenzia, lui di qua e l’impiegato al di là del tavolo, persi in estenuanti conciliaboli a bassa voce. L’impiegato lancia occhiate supplici ai colleghi perché lo vengano a salvare. «Cosa cambia se la nave deve tornare indietro a prenderci? Basta dirlo al capitano, è lì apposta per prendere ordini... Come sarebbe che sull’altro lato dell’isola non ci sono alberghi? Mancano ancora tre mesi alla partenza, c’è tutto il tempo per costruirne uno, basta volerlo....»
All’estremo opposto troviamo i torinesi che villeggiano sempre nella stessa località; quest’anno la signora novantenne e in piena salute è sicura di vincere la targa assegnata al villeggiante più fedele dal momento che ci va tutte le estati ininterrottamente da quando aveva cinque anni di età. Viene battuta da una coetanea che dimostra, documenti alla mano, che sua mamma incinta aveva villeggiato lì già poco prima che lei nascesse. Il villeggiante fedele nelle sue passeggiate, sempre le solite, nota tutti i cambiamenti rispetto all’anno prima, esempio la vite americana al posto della passiflora sul muro della villa della famiglia Pautasso. Sarà questo l’oggetto della conversazione quando tutti sostano con l’aria svagata nella hall dell’albergo pronti a scattare al suono della campana che annunzia l’inizio della cena.
Alla prima colazione era stata celebrata la cerimonia del menù; lo chef aveva letto ad alta voce il nome delle portate previste per quel giorno e il villeggiante fedele (e perciò anziano) aveva sostituito il pasticcio di maccheroni con il brodo vegetale e il camoscio con polenta con la fettina di vitello cotta a vapore e – mi raccomando – senza sale.
C’è poi la versione torinese di Indiana Jones, colui che riscatta undici mesi di vita ordinaria con un mese di avventure, preparate sulle carte e sulle guide nei mesi invernali. Lui non è un volgare turista, i turisti sono sempre gli altri, lui è un vero viaggiatore, visita posti di cui i turisti ignorano persino l’esistenza. Due in particolare: l’isola greca non collegata da servizi di linea, abitata soltanto da pescatori che tornano all’alba apposta per cuocerti alla brace il pesce appena pescato e che, quando tenti di ricompensarli, si offendono e il monastero buddista, dove ti accettano solo se superi un esame di filosofia zen in tibetano stretto. «Non mi dire che conosci il tibetano», «No, ma che c’entra, hanno capito subito che non ero un volgare turista che andavo lì solo per poterlo raccontare. È un’esperienza sconvolgente, esci di lì che sei un altro, vedi le cose terrene con un’ottica diversa, respiri sui ritmi dell’eternità. A proposito, come sta andando la Borsa? Ho un pacco di Generali che vorrei vendere...»
Il grande viaggiatore ritorna e ti invita a cena, per mostrare agli amici i quasi tremila scatti digitali che ha portato a casa, senza aver trovato il tempo per selezionare i più interessanti. È un discreto fotografo perciò la visione sul grande televisore sarebbe anche piacevole se non fosse accompagnata dai suoi commenti, dedicati sempre al racconto di quello che stavano facendo i suoi amici mentre lui scattava quella foto.
Descrivendo la vita spartana cui deve rassegnarsi il visitatore dello Yemen, proietta una serie di stupendi scatti realizzati a Sana’a, la capitale. In uno si vede la città dall’alto e viene spontaneo domandare: «Bella questa inquadratura. Dov’eri quando l’hai scattata?». «Dalla terrazza dell’Hilton. O era lo Sheraton? Sai com’è, questi grandi alberghi americani si somigliano tutti. Mentre scattavo questa foto Giovanna e Guglielmo sotto l’ombrellone bevevano un long drink buonissimo, fatto con latte di cammella inacidito e la spremuta di un cactus che cresce solo da quelle parti. L’hai mai assaggiato? Dovresti provarlo una volta o l’altra. Elisa invece era in piscina con Filippo». «No», lo corregge la moglie, «Filippo stava dormendo, ha dormito per tutto il viaggio». «Va bene, hai ragione tu», concede magnanimo il marito.
Indica me: «Lui non lo conosce neanche Filippo, perché dovrebbe appassionarsi al dilemma se era in piscina o se dormiva? Piuttosto lì all’Hilton, o allo Sheraton, c’era un barman simpatico, una vera sagoma, aveva uno stock di lenti a contatto e ogni giorno si cambiava il colore degli occhi. Noi ci facevamo su le scommesse, su quale sarebbe stato il colore di quel giorno e per essere sicuro di vincere un giorno gli ho dato una bella mancia ma un altro cliente, un americano pieno di soldi, gliel’ha data più alta della mia e così ho perso. Lì abbiamo fatto amicizia con una famiglia di Santa Croce sull’Arno, hanno un commercio all’ingrosso di pelli, se andiamo a trovarli ci fanno un forte sconto. Vuoi venirci anche tu?»