La guerra di Putin in Ucraina ha messo in discussione molte convinzioni dell’establishment tedesco. Ancora oggi, a quasi sei mesi dall’invasione che ha cambiato tutto il mondo, e che ha cambiato tanto anche la Germania, la posizione di Berlino resta un enigma tutto europeo. C’è grande insofferenza soprattutto nell’est dell’Ue – e in particolare in Polonia, dove i tedeschi sono visti con sospetto sempre – nei confronti dei tentennamenti della Germania, che a parole è sempre stata decisa nel condannare e isolare Putin ma che nella pratica continua a porre dei freni. Gli esempi si sono moltiplicati da febbraio a oggi. Il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato un investimento enorme nell’esercito tedesco all’indomani dell’invasione in Ucraina, avviando un riarmo che era fino a quel momento considerato un tabù.
Ci pensate? Un politico socialdemocratico, in un governo di coalizione con i Liberali e con i Verdi, lancia una riforma dell’esercito che stravolge un approccio in politica estera che è sempre stato dimesso, dalla Seconda guerra mondiale in poi. Sarebbe una rivoluzione in qualsiasi parte del mondo, visto che la sinistra per sua cultura è anti-militarista, ma lo è ancora di più nella Germania sconfitta nel 1945 e da quel momento proiettata a eliminare nell’immaginario collettivo qualsiasi riferimento al suo passato totalitario. Scholz lo ha fatto, ha chiesto in Parlamento di approvare una legge per ingrandire e svecchiare i mezzi militari del paese, ha predisposto l’invio di carri armati all’Ucraina e la formazione dei soldati ucraini sul proprio territorio. Una rivoluzione. Solo che poi le armi promesse sono arrivate a rilento – il tasso di adempimento di Scholz è basso – e complicati sistemi di gestione dei flussi militari verso l’Ucraina hanno fatto sì che l’impegno tedesco si sia sentito poco sul campo di battaglia. Le continue polemiche che partono da Varsavia possono essere in parte il frutto di un sospetto storico, ma non sono affatto fuori fuoco: la Germania è un po’ defilata. Nonostante Scholz e l’attivismo di Annalena Baerbock, ministra degli Esteri, che ribadisce di fronte a tutti gli interlocutori, anche i più ostili, la necessità di aiutare l’Ucraina e di togliere dall’orizzonte futuro di Berlino qualsivoglia riappacificazione con la Russia. Baerbock rappresenta forse la sorpresa più grande nel contesto europeo con questa sua chiarezza valoriale indefessa, perché è co-leader dei Verdi, storicamente pacifisti, e perché appunto è tedesca. Ma il suo slancio non basta.
Se si guarda alle difficoltà che Scholz incontra ogni volta che si parla di indipendenza energetica, si capisce quanto sia complicata questa transizione in un mondo post invasione dell’Ucraina, che presenta connotati diversi rispetto al passato. Il governo di Berlino è convinto che il legame con le risorse russe debba essere interrotto e ha predisposto un piano a lungo termine per raggiungere l’obiettivo, ma nel frattempo si fa vincere dal terrore. La Germania è arrivata persino a spingere la Commissione europea, guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen, a proporre un piano di solidarietà energetica obbligatoria. La misura non è stata accettata, e non c’è da stupirsi: era difficile immaginare che qualche leader europeo riuscisse a far passare a livello nazionale l’idea che bisogna tagliare i consumi energetici (del 15%) perché lo chiede l’Europa. Quando poi è risultato chiaro che a chiederlo era soprattutto la Germania, l’obbligatorietà è saltata in un un attimo. Non solo perché «l’obbedienza ai tedeschi» è un topos piuttosto consolidato del sovranismo anti-europeo, ma perché a Berlino s’è ribaltato l’equilibrio interno all’Ue rispetto ai tempi della crisi del debito. Allora la Germania voleva rigore e rispetto delle regole da parte dei paesi, a partire dalla Grecia, che avevano vissuto al di sopra delle loro possibilità. Ora quegli stessi paesi dicono alla Germania che se lei si è legata mani e piedi al gas russo pur sapendo che era pericoloso, il problema non è loro.
Scholz corre ai ripari cercando di diversificare le fonti e imponendo tagli ai consumi ad aziende e cittadini tedeschi, ma continua a muoversi con lentezza nel distacco da Putin. Perché la dipendenza nei confronti dell’est e della Russia non è solo economica, è culturale. La Germania ha sempre vissuto il suo ruolo come un ponte tra est e ovest, e la riunificazione segnò un momento decisivo per la sua storia, non soltanto per le implicazioni politiche, ma perché fu il momento in cui questo paese diviso a metà pensò di non dover più scegliere da che parte stare, che la sua anima occidentale e quella orientale potessero convivere e prosperare insieme. È questo l’ostacolo più grande per Berlino: non tanto ripensare il significato della Russia nel mondo, ma quello della Germania.