Quel ragazzo che come me...

/ 06.09.2021
di Bruno Gambarotta

Tra l’estate di oggi e quella di settanta anni fa è cambiato tutto. Quasi tutto. C’è un giorno, nel corso dell’estate, nel quale, dopo laboriose trattative, le famiglie si ritrovano nella casa di campagna lasciata in eredità da uno dei nonni. C’è sempre un nostalgico tra i tanti parenti. Da lui è partita l’idea alla quale è impossibile sottrarsi: «Dobbiamo organizzare una bella rimpatriata, è dall’ultimo Natale che non ci troviamo tutti insieme».

Il sole picchia duro, c’è voglia solo di cose rinfrescanti ma il barbecue è d’obbligo. Il padrone di casa è molto fiero della sua griglia, spiegherà a tutti coloro che hanno la disgrazia di venirsi a trovare a tiro di voce, che il fabbro che l’ha forgiata subito dopo è stato posseduto dalla vocazione di farsi frate trappista. Aggiungerà che molti proprietari di ristoranti di gran nome gli hanno offerto per quella griglia cifre considerevoli ma lui niente, non la vende. I presenti al racconto che si ripete uguale a ogni estate pensano all’unisono «magari la vendesse».

Lui, il titolare della griglia, comincerà alle sei del mattino a preparare i fuochi: giornali vecchi, rametti secchi, una spruzzata di alcool denaturato, così, non appena avrà accostato a quel presepe il fiammifero acceso, una rombante fiammata gli arrostirà i peli del torace, i baffi, le sopracciglia e un ciuffo ribelle. La lingua piemontese ha un’espressione precisa per questo evento, tradotta suona come «abbrustolirsi i peli». Per togliersi di dosso l’odore di bruciaticcio, l’artista della griglia si cospargerà il petto un minuto prima villoso di acqua di colonia e ricorderà un pollo effeminato che sia stato appena fiammeggiato prima di metterlo nel forno.

A mezzogiorno la griglia è in perfette condizioni: la carbonella, consumandosi, non è più rossa ma ricoperta da un velo di cenere, è fondamentale che la fiamma viva non tocchi le carni. Peccato che un imprevisto acquazzone spenga tutto pochi istanti prima di iniziare la cottura. E adesso cosa ne facciamo di tutta questa carne? Come tutti gli altri anni non ci siamo capiti e due famiglie hanno fatto la spesa dal macellaio, convinta ciascuna di avere l’incarico in esclusiva. Ognuna delle due famiglie ha poi acquistato il doppio di carne della lista, di bistecche, costine, salciccia, hamburger, pollo, tacchino, in base all’esortazione: «Non facciamo la figura dei taccagni, che non ne manchi».

Intanto che si riaccendono i fuochi possiamo incominciare con gli antipasti. Si mangia all’aperto, nei piatti di plastica, attorno a una lunga tavolata sistemata sotto il portico dell’aia. Ci sono le mosche ma la campagna senza le mosche non l’hanno ancora inventata. I bambini si offrono di sterminarle: inizia una lunga trattativa per stabilire il compenso che si conclude, per sfinimento dei padri, su un prezzo assurdo, un euro per ogni decina di mosche, catturate e uccise. «Tanto», dirà un povero illuso, «sono bambini di città, non ce la faranno a prendere nemmeno una mosca invalida». Tante ne ammazzano altrettante ne arrivano, pronte ad immolarsi. Per aggiornare il conteggio delle loro spettanze i bambini mettono ogni volta il trofeo sotto il naso dei grandi mentre stanno mangiando. A modo loro sono onesti. Sarebbe stato meglio pagarli a ore anziché a cottimo.

Rispetto a settanta anni fa c’è ancora un’altra differenza. Allora, durante le laboriose masticazioni, si evocavano i parenti che per qualche motivo non avevano potuto essere presenti. Adesso gli telefonano! Hai un bel dire «staranno mangiando». La risposta è: «E noi cosa stiamo facendo?». Infatti. «State mangiando?» è la prima domanda. Alla risposta affermativa: «Anche noi». Inizia una bella chiacchierata a voce alta su quello che abbiamo nel piatto, vedi caso gli stessi cibi che hanno loro. L’altro fa l’errore fatale di fare il nome di un comune conoscente. Scatta un «È qui! Aspetta che te lo passo!». E passano il cellulare al nominato mentre sta sbranando l’osso della lombata, ha la bocca piena, le dita unte, non sa cosa dire.

L’arrivo dell’anguria è il segnale che il pranzo è finalmente terminato. C’è poi lo strascico del caffè, del caffè corretto con la grappa versata da una bottiglia senza etichetta, ovvero distillata in casa, una bomba da 110 gradi. Arriverà poi il nocino, anche lui fatto in casa, «questa volta è venuto un po’ denso ma almeno è genuino». Girata la bottiglia a testa in giù trascorreranno dieci minuti prima che qualche goccia si decida a scendere. D’ora in poi il nostro stomaco dividerà gli anni in «prima del nocino» e in «dopo il nocino».

È l’ora della siesta, tutti si stravaccano in giro, meno i bambini che, deposti i giochi elettronici, improvvisano una battaglia a bucce di anguria. È questo il momento scelto dalla zia per la foto di gruppo. I suoi patetici appelli a radunarsi sul prato restano inascoltati, così si rivolge a me: «Aiutami tu, a te danno retta, qui sei il più vecchio». Grazie per avermelo ricordato. Vado in giro a fare il pastore del gregge: chi è quel ragazzo rannicchiato sulla sedia a sdraio, così assorto nella lettura del suo libro da non sentire il mio richiamo? Quello sono io, settanta anni fa: smettila di leggere, diventerai gobbo, cieco, tisico, a scelta. Cosa è successo quasi senza che me ne accorgessi? Perché adesso mi trovo dall’altra parte della barricata?