In una sala, dedicata all’arte contemporanea, del museo di San Francisco, uno studente fa cadere, intenzionalmente, un paio di occhiali. Per poi osservare le reazioni dei visitatori, chiaramente imbarazzati di fronte a quel che poteva essere un semplice oggetto, da raccogliere e consegnare all’ufficio cose smarrite, o, invece, un’opera d’arte, da ammirare e non toccare. L’episodio, riportato recentemente dalle cronache mondiali, ha fatto notizia soltanto fino a un certo punto. Non era, infatti, una primizia. Rientrava, anzi, nella categoria, sempre più affollata, di casi in cui un oggetto in mostra rischia una fine ingloriosa. Come avvenne, una decina d’anni fa, alla Tate Modern di Londra, quando un’opera, prestigiosamente firmata, fu spazzata via da un ignaro addetto alle pulizie. Si può ormai parlare di incidenti all’ordine del giorno, provocati da opere d’arte che si presentano in forme insolite, alle quali bisogna fare l’occhio. O il piede. Collocate per terra, diventano un inciampo.
Al di là del danno materiale, del resto coperto da adeguate polizze assicurative, questi incidenti rappresentano un danno d’immagine, grave per un ambito creativo che già stenta a conquistare le simpatie del grande pubblico. Cresce, infatti, il disamore proprio, e persino esclusivamente per l’arte contemporanea. Mentre l’arte classica, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, come dire le epoche e le correnti codificate, possono contare su folle di visitatori, disposti ad affrontare, in coda, lunghe attese, ma certi di essere, poi, ricompensati dal contatto con dipinti, sculture, architetture rassicuranti. Qui, niente brutte sorprese. Bensì oggetti che rispettano quelle norme d’ordine estetico e persino morale, inculcate già dagli insegnamenti scolastici, e radicate nel bagaglio culturale del cittadino comune. Insomma, il bello che coincide con l’utile.
Con ciò, dal canto loro, i luoghi e le manifestazioni dove va in scena l’arte contemporanea possono contare su un pubblico, se non numerosissimo, comunque fedele e influente, di frequentatori, anche fisicamente riconoscibili. Una sorta di categoria umana a sé stante che, da un lato, incute soggezione, dall’altro alimenta ironie magari scontate. Un paio d’anni fa, in occasione di Art Basel, summit mondiale per collezionisti ed estimatori dell’arte contemporanea, la «Basler Zeitung» aveva pubblicato un decalogo dei comportamenti corretti, destinato al visitatore qualunque: per non perdere la faccia. Effettivamente qui, come alla Biennale di Venezia, alla Documenta di Kassel o alla Manifesta di Zurigo, ci si muove su un terreno insidioso. Dove la risata, lo sberleffo, addirittura l’indignazione sono reazioni primarie, ispirate al buon senso, per definizione virtuoso.
Tuttavia, come sostiene Christian Saehrendt, storico dell’arte e docente all’università di Heidelberg, in queste reazioni anche la pigrizia mentale e i pregiudizi hanno la loro parte. Secondo lui, nei confronti del nuovo nell’arte si applica il metro della comprensione, mentre si accetta di non capire ciò che avviene nelle scienze e nella tecnologia. Certo è, come sostiene anche Saehrendt, che i critici d’arte, i curatori di gallerie, con i loro discorsi fumosi e non rado politicamente tendenziosi, e relativi sprechi del danaro pubblico, non aiutano ad avvicinare a opere che, francamente, giustificano qualche perplessità. Certo bisogna dimostrarsi flessibili e curiosi, ma che fare di fronte a installazioni di calze e scarpe, sparse sul pavimento del Getty Museum di Los Angeles? O le caramelle, avvolte in carte colorate, in cui mi sono imbattuta, visitando il Museo d’arte contemporanea, inaugurato nel 2007 a New York, nella Bowery, quartiere in fase di riabilitazione anche sociale? L’edificio è splendido, firmato da Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, archistar giapponesi. Ma, come adesso sta accadendo, rischia di diventare fine a se stesso. Un involucro senza contenuti.