Chi c’era, se lo ricorda. Fu un Mondiale bellissimo, per tutti gli europei, anche per chi non lo vinse. Ma per l’Italia fu un Mondiale speciale; e non solo per la vittoria.
Nell’estate di quarant’anni fa, il Paese cambiò umore. I ricordi precedenti al luglio 1982 sono in bianco e nero; i ricordi successivi sono a colori. La fine degli anni che chiamiamo di piombo aveva bisogno di un passaggio, di una cesura, di un evento: i Mondiali di Spagna lo furono.
Poi certo la memoria gioca brutti scherzi. Il 1982 fu in realtà uno degli anni più duri del terrorismo. Le Brigate Rosse ormai sconfitte – l’anno prima era stato arrestato il loro capo, Mario Moretti – incrudelirono e sparsero molto sangue. Eppure, per chi c’era, il 1982 fu davvero l’anno della svolta. Finiva il tempo della politica di strada e di piazza, delle bombe sui treni (ma ci sarebbe ancora stata la strage del Natale 1984), del coprifuoco notturno non dichiarato, della guerra civile mimata tra giovani abbigliati diversamente, quasi in divisa. Cominciava il tempo dell’estate romana, della movida sui Navigli milanesi, delle discoteche. La febbre del sabato sera e il campionato di calcio più bello del mondo (tutte le stelle di quel Mondiale arrivarono in Italia: Maradona e Platini, Boniek e Zico). Il riflusso e la ritirata nel privato. «Torna a casa in tutta fretta / c’è un Biscione che ti aspetta» non era solo lo slogan fortunato delle tv di Berlusconi (che preparava l’operazione Milan); era lo spirito del tempo. Persino ballare, con la discomusic, era una cosa che si faceva da soli. Dire «io» diventava più naturale che dire «noi».
Quella politica di strada e di piazza aveva fatto molti guai. Eppure era stato l’ultimo momento in cui i giovani avevano affidato la propria vita alla politica, convinti che avrebbe cambiato il mondo. Era una generazione sicura che si potesse essere felici soltanto tutti insieme. La disillusione fu terribile. Ma anche l’idea della generazione successiva – pensare che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto – si sarebbe rivelata una dolorosa illusione.
All’epoca però non lo si sapeva. E quindi, la notte del Bernabeu, gli italiani scesero nelle strade a festeggiare. Si rividero i tricolori, considerati negli anni 70 un simbolo di parte, quasi di estrema destra. Si riscoprì l’amor di patria, l’appartenenza nazionale (per il senso dello Stato bisognerà aspettare di vincere parecchi altri Mondiali). Più semplicemente, apparve naturale non solo far festa, ma anche uscire di casa senza paura, sorridersi, abbracciarsi, smettere di fare a botte per l’ideologia e la politica.
Molti partirono per la Spagna. E fu la scoperta di un Paese che stava vivendo il suo boom economico e sociale. Il dittatore Franco era morto soltanto sette anni prima. Il golpe Tejero – il militare con il tricorno in testa che pareva uscito da un film in costume – era fallito appena l’anno precedente. La Spagna riscopriva la propria vitalità, la propria solarità. Tifò Italia. E fu ricambiata da un’onda di affetto e sorellanza, da parte degli italiani, che non si è ancora esaurita.
Poi certo un Mondiale non è solo un fatto di società e di costume, ma anche di sport, di tecnica. L’impresa spagnola fu la consacrazione di una straordinaria generazione di calciatori, che aveva sfiorato la vittoria già quattro anni prima in Argentina. Con loro si affacciava sulla scena un’Italia giovane ma già matura, senza troppi fronzoli, con le radici ben piantate dalla provincia da cui quasi tutti venivano (Conti e Graziani laziali di Nettuno e di Subiaco, Tardelli e Rossi toscani di Careggine e di Prato, Cabrini e Scirea lombardi di Cremona e Cernusco, e poi ovviamente i friulani Bearzot e Zoff, il pugliese Causio, il tripolino Gentile…) ma con lo sguardo aperto al mondo. Non giganti forti e robusti; «ragazzi come noi», per dirla con Antonello Venditti, che nella notte della festa si trovò a giocare per strada con i passanti e con gli Azzurri.
Da allora l’Italia è molto cambiata. Si è prima arricchita e poi impoverita. Ha conosciuto il degrado dei rapporti umani, la desertificazione dei borghi e dei centri storici, il trionfo della vita virtuale dei social, e pure l’esplosione di un nuovo calcio, dominato dai procuratori e dal denaro (Paolo Rossi guadagnava un centesimo di quel che guadagna oggi Messi, e dopo la Spagna fece scandalo il suo rifiuto di rinnovare il contratto alle condizioni imposte da Boniperti, come si usava fare alla Juventus). Ma nulla e nessuno potrà togliere agli italiani il ricordo di quell’estate di quarant’anni fa, in cui erano i campioni del mondo. E anche le nazioni europee che non vinsero hanno un buon ricordo di Spagna 1982. La Germania arrivò in finale. La Francia di Platini giocò un calcio bellissimo, ribattezzato «calcio champagne». La Polonia di Boniek eliminò gli odiati sovietici. Ma per tutti era un mondo che andava dal meno al più, che si lasciava alle spalle le tensioni politiche e inaugurava un decennio di espansione economica e di spensieratezza, che oggi viene da rimpiangere.