Nei giorni del voto di fiducia al Governo di Giuseppe Conte, a Palazzo Madama non ho trovato nessun senatore, tranne un paio più lungimiranti dei colleghi, disposto a fare oppure sostenere il nome di Mario Draghi. E questo nonostante apparisse già allora ben chiaro che fosse la soluzione migliore. Invece appena un mese fa nei palazzi del potere ci si accapigliava per stabilire se un numero sufficiente di «responsabili», «costruttori» o addirittura «patrioti» fosse disposto a puntellare un Governo traballante ma ancora in piedi.
La verità è che Draghi tra i parlamentari non lo voleva quasi nessuno, anche se alla fine magari lo voteranno quasi tutti. Il motivo è semplice: i partiti non toccheranno palla o comunque i capi corrente conteranno meno di prima, proprio nel momento in cui ci sono 209 miliardi da spendere.
Ma i tecnici arrivano quando i politici falliscono. I precedenti non mancano. Fu così per Carlo Azeglio Ciampi, quando nel 1993 il sistema si stava sgretolando sotto i colpi di «Mani pulite» (una serie di inchieste giudiziarie che rivelarono un sistema fraudolento e corrotto che coinvolgeva la politica e l’imprenditoria italiana, nota anche come «Tangentopoli); per Lamberto Dini, quando a fine 1994 andò precocemente in pezzi l’alleanza tra Silvio Berlusconi e la Lega che aveva vinto le elezioni a marzo; per Mario Monti, dopo la caduta del Cavaliere nell’autunno 2011. E così sarà adesso per Draghi.
Tra i «chiamati», vale a dire tra i tecnici approdati alla guida del Governo per una convocazione dall’alto, non va dimenticato Giuseppe Conte. Se non altro Ciampi quando divenne presidente del Consiglio era da quattordici anni il governatore della Banca d’Italia. Dini era stato direttore generale della Banca d’Italia e ministro del Tesoro. Monti era stato rettore dell’Università Bocconi e il commissario alla concorrenza che aveva schierato l’Unione contro i monopolisti dell’informatica e in prospettiva i padroni della Rete. Draghi è stato direttore generale del Tesoro, governatore della Banca d’Italia, presidente della Banca centrale europea. Di Conte nessuno conosceva il nome, il volto, la storia. Questo non significa che abbia avuto solo demeriti, anzi: ha chiuso il Paese ai tempi del primo coraggioso lockdown. Ha ottenuto dall’Europa risorse da spendere in Italia.
Gli elettori italiani e un domani gli storici daranno il loro giudizio. C’è però un punto da chiarire. Spesso, e anche adesso a proposito di Draghi, si sente dire che da troppo tempo l’Italia non ha un premier o un Governo «eletto dal popolo». Vale la pena ribadire che il concetto di premier o Governo eletto non esiste nella Costituzione, e ogni volta che si è provato a modificarla, le riforme non hanno retto alla prova del referendum.
Il popolo non elegge un Governo ma un Parlamento, dove si delinea una maggioranza. Ovviamente un sistema maggioritario consegna agli elettori un potere più grande, che il sistema proporzionale – di fatto vigente – riserva ai partiti. Quindi o si cambiano le regole costituzionali e la legge elettorale (che è legge ordinaria) oppure non ci si può lamentare del premier «chiamato» o «non eletto».
Del resto non si può liquidare Mario Draghi come un «tecnico». L’esperienza fatta in Europa è stata un’esperienza politica. Vissuta nonostante l’ostilità della Bundesbank e con il crescente appoggio di Angela Merkel, la quale con la pandemia si è convinta della necessità di condividere parte del debito con i partner europei. È questa la chiave che consente a Draghi di insediarsi e di fare una politica espansiva, anche se i ceti medio-alti guardano con una certa preoccupazione la riforma «progressiva» del fisco che rischia di inasprire ulteriormente aliquote che già ora sono tra le più alte d’Europa. Draghi però, a differenza di Monti, non ha da Bruxelles il mandato di tagliare, ma di spendere bene, distinguendo tra debito buono, che porta investimenti e posti di lavoro, e debito cattivo, che produce solo assistenzialismo.
Dalla crisi escono ulteriormente ridimensionati i partiti. Un po’ tutti hanno cambiato idea repentinamente. Il Partito democratico è passato dalla linea «o Conte o morte» all’appoggio a Draghi. La Lega ha ripudiato anni di euroscetticismo. Lo spettacolo di questi giorni rivela cosa era ormai diventata la propaganda, alimentata dalle varie macchine social: un cumulo di sciocchezze. Ora destra e sinistra all’apparenza vanno al Governo insieme. In realtà, entrambe sostengono il Governo Draghi. Dovranno smettere, almeno per qualche mese, di considerare l’avversario un nazista oppure uno stalinista. Resta il merito dei problemi. Se arriva un barcone davanti a Lampedusa, che si fa? Lo si accoglie o lo si rimanda indietro? E sulla giustizia come faranno a convivere grillini e berlusconiani?
Per Draghi non sarà semplice. Anche lui, più che di una claque, avrà bisogno di un sistema mediatico e di un’opinione pubblica critici. Perché l’importante non è non commettere errori, ma saperli riconoscere. E l’atmosfera di melassa che quasi tutti i giornali e le televisioni stanno costruendo attorno a lui rischia di non aiutarlo, anche perché magari gli stessi opinionisti sono pronti ad azzannarlo alla prima difficoltà.
Quel Draghi che quasi nessuno voleva
/ 15.02.2021
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo