Proviamo a dimenticare le visioni e le interpretazioni sinora avute sul conflitto che Putin ha scatenato in Ucraina. Dimentichiamo anche la sfilata poco armata del 9 maggio a Mosca, con un Putin dipinto quasi sul punto di chiedere scusa se non di mettersi a piangere. E trascuriamo abbracci e fiori scambiati fra dirigenti politici europei e americani con il presidente ucraino Zelensky. Proviamo a mettere a fuoco unicamente l’Ue, cioè uno dei bersagli, con la Nato, che Putin voleva colpire. E chiediamoci: a che punto sta l’Europa? È davvero baldanzosa come i suoi rappresentanti che volano a Kiev? Vive di luce propria o sta sfruttando la messa in ombra di Putin dopo le distruzioni e i bestiali attacchi contro inermi civili in Ucraina iniziati il 24 febbraio scorso? E soprattutto: è davvero di nuovo coesa e più determinata come i media continuano a sottolineare quando evidenziano uno degli sbagli di valutazione commessi da Putin?
Non avendo spazio sufficiente e nemmeno gli attrezzi necessari per azzardare risposte a tutti questi interrogativi, cerco di non offrire versioni o concetti probabilmente già dispensati da più autorevoli esperti. Inizio segnalando uno strano mutamento: se per oltre due mesi l’impressione di una maggior coesione emergeva chiaramente da quanto le varie cancellerie europee decidevano (in materia di accoglienza profughi, di aiuti umanitari e anche di forniture di armi a Kiev), è bastato che i vertici dell’Unione europea giungessero davanti a delibere potenzialmente in grado di porre il Cremlino con le spalle al muro (il blocco degli acquisti energetici dalla Russia) per ritrovare la triste immagine di una comunità europea arroccata sulle precedenti posizioni. Il seguito è ora tutto da scrivere, anche se non mancano indicazioni. Ad esempio l’invito del presidente francese Macron, dall’alto della sua indipendenza energetica e della ancor più convincente «force de frappe» nucleare, a non cercare la pace umiliando Putin, è un segnale di come l’Unione europea probabilmente cercherà di procedere. Rimane però sempre da chiarire un lato oscuro e anche preoccupante. Da diversi anni – prima per la valanga dei populismi, poi per le derive favorite da un indebolimento continuo delle economie – l’Europa si muove in uno scenario pieno di incertezze, spesso accresciute dalla convinzione che gli estremismi e i fantasmi legati a fascismo e comunismo possano tornare a minacciare libertà e democrazia in un mondo globalizzato in cui tecnica e scienza credevano di aver soppiantato le ideologie politiche.
A movimentare questo scenario, secondo l’economista Geminello Alvi, contribuisce soprattutto un sempre più esteso e ambiguo riflusso dei nazionalismi, sospinti dal presupposto che un governo autoritario possa essere la scelta migliore «per salvarsi in un mondo percepito come in marcia verso la rovina e preda di noia, caos e confusione». È un pericolo aleggiato ripetutamente, per fortuna senza risvolti drammatici, sulle recenti elezioni presidenziali francesi, e ormai presente in quasi tutta l’Europa, in particolare nella vicina Italia. Un’ennesima conferma – al di fuori delle sempre più aberranti esibizioni di tifosi negli stadi e di «invitati» nei talk show televisivi – è giunta con il programma politico di Fratelli d’Italia che, a parte la roboante premessa, lancia anche questo progetto riguardante mondo del lavoro e giovani: «Va costruito un sistema organizzato (…) basato su un sistema di intelligenza artificiale che a regime rintracci l’elenco dei giovani che terminano ogni anno le scuole superiori e l’università. (…) Il giovane non potrà più scegliere se lavorare o meno, ma sarà vincolato ad accettare l’offerta di lavoro per sé, per la sua famiglia e per il paese»! Un «impegno» che subito mi ha ricordato una folgorante messa in guardia: «“Il fascismo è morto per sempre” dichiara il signor Z alla moglie. “Però se fossi al governo farei attenzione lo stesso… Così, a occhio e croce, mi sembra che la rivoluzione fascista sia stata rinviata a causa del cattivo tempo”. Poi ci ripensa e aggiunge: “Vedi, cara, il fascismo è il diabete di molti italiani, è una malattia del ricambio…”». L’avvertenza è contenuta in un articolo scritto da Ennio Flaiano nel 1944.