È l’eredità più famosa lasciata dal grafico Milton Glaser, scomparso, novantenne, lo scorso 26 giugno. A lui si deve un logo, in apparenza semplice, persino banale, entrato ormai nella nostra quotidianità, in infinite varianti. È appunto, quel cuore, preceduto dalla I e seguito da NY, cioè una dichiarazione d’amore per la propria città, che più sintetica e incisiva non si può. L’originale del messaggio, disegnato con la matita rossa su un foglio di carta bianca, ha trovato, giustamente, posto al Moma, il museo che documenta, già con la sua architettura, l’avvento della grafica, espressione multiforme, ancora da sdoganare sul piano critico.
Non a caso, quel logo nacque a New York, e per via di una coincidenza che Glaser amava raccontare. Si era nel 1976, quando la metropoli si trovò ad affrontare un’allarmante crisi di sicurezza. Le strade, anche nel centro, di giorno come di notte, erano ostaggio della criminalità mafiosa, degli spacciatori di droga e di sbandati violenti. La moglie di Glaser confessa di aver paura a uscire di casa. Per Glaser, cittadino socialmente impegnato, l’emergenza non si risolve soltanto mobilitando la polizia. Serve un risveglio morale, culturale e affettivo. Da trasmettere in termini visivi eloquenti, perché questa è una funzione che spetta anche all’arte. E in particolare alla grafica che, in tanti modi, attraverso manifesti, slogan, simboli, segnaletiche sollecita e guida i comportamenti umani. Da qui la scelta del cuore abbinato a lettere dell’alfabeto: un emblema destinato a incuriosire, a commuovere, a smuovere. Glaser ne è convinto. Confermando, con ciò, un ottimismo all’americana, che magari fa sorridere gli europei. Certo è che, nell’operazione di recupero della metropoli, il logo ha avuto la sua parte, almeno sul piano psicologico collettivo. Mentre, su quello pratico, fu poi decisivo lo storico intervento del sindaco Rudy Giuliani, quello della «tolleranza zero», per altro criticata da molti.
Ma, per l’autore, il successo di quest’amatissimo logo rappresenta un episodio particolarmente fortunato, fra tanti altri meno popolari, lungo un affollato percorso creativo contrassegnato dal culto persino maniacale, del lavoro. «Art is Work» era il motto di Milton Glaser, interpretato su piani diversi. Sia con le sue opere, fra cui i ritratti di Obama e di Bob Dylan, ovviamente famosi, sia studiando la storia dell’arte, anche attraverso contatti diretti. In Italia, aveva scoperto Piero della Francesca ad Arezzo, e Giorgio Morandi a Bologna, dove insegna all’Accademia di belle arti. Entra in contatto con l’Olivetti, azienda all’avanguardia nello «styling», che gli affidò il lancio della macchina da scrivere Valentine.
Era di casa, si fa per dire, al Louvre, dapprima come assiduo visitatore e, poi, come ospite, con una personale nel 1970. Mentre a Londra la Royal Accademy gli offre una cattedra. Un po’ come i nobili inglesi, che nell’800 compivano il «grand tour» alla scoperta del mondo classico, in Egitto e in Grecia, Glaser prediligeva la vecchia Europa, in cui trovare stimoli da riportare negli USA. Dove insegna in varie università e pubblica saggi, quali Drawing is Thinking e Design of Dissent. Titoli eloquenti, che testimoniano il costante impegno nei confronti della grafica, da promuovere ad arte, a pieno titolo. Senza se e senza ma.
Questione di talento, di serietà, di fatica e di ripensamenti. «Il dubbio, diceva, è meglio della certezza». Glaser faceva e rifaceva finché raggiungeva l’obiettivo di un «segno» in grado di «colpire lo sguardo e di rimanere nella mente». Tutto ciò, lavorando, ostinatamente a mano, servendosi di carta e matita, da artista-artigiano. Il computer gli era estraneo. Un rifiuto, quasi una civetteria, da parte di un sensibilissimo interprete della modernità.