Quel che resta dell’anno peggiore

/ 24.12.2018
di Paolo Di Stefano

Tempo di bilanci. Che anno è stato il 2018? Pessimo (3––). Basti pensare al sovranismo in crescita, al populismo in crescita, al razzismo in crescita, al bullismo in crescita, all’inquinamento in crescita: in crescita come i blogger, gli influencer, le community, gli chef e i food maker, i like, i workshop, il know-how, il low cost, le mission, i login, le password, i budget, i brand. E le fake news. Un anno degnamente concluso dalla scoperta che un prestigioso giornalista di un prestigiosissimo settimanale tedesco, «Der Spiegel», si è inventato inchieste e reportage fingendo viaggi pericolosi che non aveva mai fatto, manco fosse Emilio Salgari che fantasticava luoghi lontanissimi da casa sua. Il guaio è che mentre Salgari scriveva straordinari romanzi d’avventura, il trentatreenne Claas Relotius proponeva inchieste finte e scoop inesistenti. Nel 2016 raccontò la storiaccia di un cittadino yemenita ingiustamente imprigionato a Guantanamo. Altre fandonie aveva pubblicato sui condannati a morte negli Stati Uniti, sulla Siria, sull’Isis, sugli abusi in una scuola dell’Arizona. Ottenendo diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio della CNN come miglior giornalista dell’anno nel 2014 e, qualche mese fa, un premio tedesco per il miglior reportage. Si è inventato interviste con persone che non aveva mai incontrato, ha spacciato per vere tragiche storie di uomini e donne che non esistono (né le storie né le persone). Un giornalista inesistente (2–) e un discreto narratore d’invenzione (5–). Quel che non si spiega è «Der Spiegel»: com’è possibile che un giornale che si vanta dei severi controlli redazionali sulle fonti si sia lasciato sfuggire tante bufale.

Per fortuna ci sono i libri. Per fortuna ci sono i romanzi, che non spacciano nessuna verità, non hanno necessità di distinguere il vero dal falso, non hanno alcun rispetto per la realtà. Parere personalissimo: tra i romanzi del 2018, metto al primo posto Berta Isla (Einaudi) dello scrittore spagnolo Xavier Marías (5½), romanzo di spie senza spionaggio, di ambiguità matrimoniali, di attese interminabili, di segreti che rimangono segreti, tenendo conto dell’evidenza che i romanzi che risolvono tutto (la gran parte di quelli che leggiamo) sono i più deludenti. Non si saprà mai che cosa è successo allo spagnolo Tomás, spia all’insaputa della moglie, Berta Isla, che ignara di tutto lo aspetta a Madrid: pure lei, come il lettore, destinata a non sapere bene chi sia quell’uomo assente, multiforme, a suo modo geniale e inafferrabile. Marías è un fuoriclasse delle sfumature e dei punti di vista che si moltiplicano e in cui ci si perde, così come ci si perde nella sua sintassi, di cui pure è un fuoriclasse. Se non siamo in grado di conoscere ciò che viviamo, figurarsi se riusciamo a conoscere ciò che abbiamo vissuto o crediamo di aver vissuto. Se non conosciamo neppure la persona che amiamo, figurarsi se riusciamo ad afferrare quel che ci viene raccontato da un grande romanzo fatto apposta per sembrare ciò che non è. I più banali sono i romanzi fatti apposta per sembrare ciò che sono o ciò che vorrebbero essere: peggio di un articolo di Relotius. Perfetta coincidenza tra le intenzioni dell’autore e le attese del lettore.

La poesia più bella dell’anno? È di Enrico Testa, poeta e linguista genovese. Non posso dichiararlo in assoluto (Ablativo è il titolo di un suo libro del 2013), ognuno scelga la sua, ma quella che ancora mi risuona nell’orecchio a distanza di mesi è nella copertina della sua ultima raccolta, Cairn (Einaudi, voto 5½): «dicono che vi sia una parola / che dice ancora / quando non c’è più niente da dire, / che non dà nome / a ciò che è senza nome / ma come un abbraccio l’accoglie / e perdonandogli ogni colpa / l’invoca e – ma forse straparlo – / è pure pronta a celebrarlo». Non è poco. «Cairn» è una parola gaelica dal duplice significato doppiamente incoraggiante: è una pietra sepolcrale ma anche una pietra che segna la via, da una parte custodisce la memoria invitando a proseguire un dialogo con i morti, dall’altra indica un possibile orientamento nel cammino accidentato dell’esistere. Bellissima immagine della poesia e della sua resistenza: poesia che «dice ancora quando non c’è più niente da dire», che «accoglie» e celebra «ciò che non ha nome», quelli che non hanno nome.

Terzo consiglio (in extremis) per gli acquisti da regalo. Il mio saggio preferito di un anno pessimo come il 2018 è Quel che resta dell’antropologo-filosofo Vito Teti (Donzelli editore, voto 5½). Anche Teti confida molto nelle pietre, anche lui invita a riconquistare ciò che rischiamo di perdere: specie i luoghi, quelli abbandonati. Niente di nostalgico. Salvare il passato nascosto e sepolto è una forma di resistenza (politica) all’esistente che appare inevitabile, al nuovo (insensato) che invade con prepotenza. L’esortazione è a un «esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di «quello che è» ma nei termini di «quello che potrebbe essere»». Niente di meglio per lasciarci alle spalle questo pessimo 2018.