Quanti ignobili Nobel

/ 21.10.2019
di Paolo Di Stefano

Dunque, ricapitoliamo in ordine sparso. Louis-Ferdinand Céline era un antisemita, avendo scritto, tra l’altro, alcuni libelli decisamente razzisti e filonazisti: Bagatelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938) e La bella rogna (1941). Fatto sta che è anche autore indiscusso di diversi capolavori, tant’è vero che persino il critico marxista (ed ebreo) Cesare Cases (grandissimo: 5½) scrisse che Céline «dal fondo dell’immondizia ha capito l’essenziale». Pensava probabilmente a romanzi come Viaggio al termine della notte e Morte a credito, ma forse anche alla Trilogia del Nord (pubblicata in Italia dall’editore più antifascista che si possa immaginare, e cioè Einaudi).

Ezra Pound è uno dei maggiori poeti del Novecento, un maestro del modernismo: Hemingway (5+) lo ammirò al punto da prevedere che la sua poesia «durerà finché esisterà la letteratura». Eppure, Pound, che si era adoperato per aiutare Joyce e Eliot, fu un ammiratore di Mussolini e di Hitler; in Italia dal 1924, sostenne il fascismo fino alla caduta della Repubblica di Salò e per questo fu processato per tradimento in America, dove fu detenuto in un manicomio giudiziario, prima di tornare in Italia.

Né Céline (6–) né Pound (5½) ebbero il Nobel, ma l’avrebbero meritato più di altri. La loro appartenenza politica, però, era troppo esplicita per essere ignorata da un premio che si propone di riconoscere scrittori che si siano distinti «in una direzione ideale» mettendo l’arte al servizio del «massimo beneficio per l’umanità» e della «fraternità delle nazioni». Dunque, niente Céline e niente Pound.

Del resto, lo stesso sarebbe accaduto a Jorge Luis Borges, perché gli si rimproverava di avere avuto frequentazioni dirette con i due dittatori Pinochet e Videla. Ma quanti ignobili Nobel. Luigi Pirandello (6–), che nel 1934 fu insignito dall’Accademia di Stoccolma, aveva già apertamente espresso il suo alato elogio a Mussolini («non trova paragoni nella storia») ben dopo l’omicidio di Matteotti. E tuttavia nessuno potrebbe mai obiettare qualcosa sul valore del drammaturgo e del narratore.

Nel 1964 Jean-Paul Sartre (4+) ebbe il riconoscimento svedese (che rifiutò), benché avesse diversi scheletri nell’armadio, compreso l’appoggio allo stalinismo. Dichiarò tra l’altro: «in Unione Sovietica vige la più totale libertà di critica» e «la rivoluzione di Tito è la mia filosofia realizzata». Anni dopo, nel 1982, il Nobel fu assegnato a Gabriel García Márquez (5½), che era stato il più ostinato promotore e difensore di Fidel Castro anche quando Castro era ormai indifendibile persino dai marxisti ortodossi. Nel 1968 Márquez aveva rifiutato di firmare l’appello per la scarcerazione del poeta cubano dissidente Herberto Padilla che avevano firmato i maggiori intellettuali, e non solo il conservatore Vargas Llosa ma anche quelli di fede comunista come Moravia e Sartre.

L’anno prima era uscito il suo romanzo più giustamente acclamato: Cent’anni di solitudine. Un libro che sconvolse i parametri della letteratura non solo latino-americana. Nel 1999 il socialista Günter Grass (4½) ottenne il Nobel con la motivazione che «le sue giocose fiabe ritraggono la faccia dimenticata della storia». Peccato che tra le facce dimenticate della sua storia c’era anche il giovanile arruolamento nel corpo militare nazista, rivelato dallo scrittore quasi ottantenne nel 2006. Ciò non toglie l’incanto e l’originalità di un romanzo come Il tamburo di latta. Chissà se, qualora l’avessero saputo, gli accademici di Svezia avrebbero evitato di assegnargli il prestigioso riconoscimento.

Del giullare anarchico Dario Fo (5), invece, tutti conoscevano, anche a Stoccolma, il passato in camicia nera nella Repubblica Sociale: lo aveva ammesso lui stesso. Anche Fo, come Grass, a quel tempo aveva diciassette anni, ma molti loro coetanei, pur giovanissimi, avevano sposato la Resistenza. Ultimo premio Nobel della letteratura, Peter Handke (5+), è un grande scrittore che pronunciò una difesa del carnefice serbo Slobodan Milosevic. Si potrebbe continuare con innumerevoli altri esempi di giganteschi scrittori, filosofi, artisti che si sono macchiati di decisioni spregevoli, di gesti indegni, di affermazioni vergognose, di comportamenti inqualificabili.

Piaccia o no, molti artisti geniali spesso rivelano impensabili bassezze morali, private e/o politiche, a volte persino risvolti criminali. Guardando la Vocazione di san Matteo, chi si ricorda che Caravaggio fu un assassino? Piaccia o no, la biografia, di fronte ai capolavori, alla lunga rischia di ridursi a pettegolezzo. Poi però, ogni volta che si è tentati di dividere i due aspetti (estetica di qua, etica di là), viene in mente l’ultimo insegnamento e invito di Cesare Segre (6+ al grande maestro che ammirò su tutti Primo Levi): «riconoscere, tra gli elementi che fanno l’eccellenza di uno scrittore, anche la luce che le sue opere portano alla comprensione e alla futura soluzione dei problemi morali».