Quando si ammazza un tiranno

/ 29.08.2022
di Aldo Cazzullo

Un’autobomba destinata all’ideologo di Putin ha ucciso sua figlia. Se ne può discutere, mantenendo ferma la condanna verso i russi e l’aggressione all’Ucraina? Le idee di Aleksandr Dugin erano detestabili; non rappresentano però una buona ragione per ammazzarlo, né tanto meno per ammazzare sua figlia. C’è una guerra in corso, e ogni guerra da sempre si combatte anche con l’informazione, talora con il terrore. Nessuno è al riparo. Né a Kiev né a Mosca. Il regime di Putin non poteva pensare di scatenare una guerra d’aggressione senza pagarne le conseguenze, a tutti i livelli; e non è detto che nel mirino debbano esserci solo le reclute mandate a combattere in Ucraina, a volte con l’inganno. Tuttavia le esecuzioni mirate sono sempre uno strumento discutibile. Spesso le persone eliminate vengono sostituite da altre peggiori e l’argomento che riecheggia in un classico del cinema, Munich di Steven Spielberg – «anche le unghie ricrescono, non per questo rinunciamo a tagliarle» – non convince. So bene che è un’arma cui anche le democrazie, dagli Usa a Israele, hanno fatto ricorso. Ma i dubbi restano, proprio perché le democrazie dovrebbero avere metodi diversi da quelli delle dittature. Certo, con il suo carisma Dugin ha giustificato se non ispirato la guerra in Ucraina. Ma le esecuzioni mirate hanno una caratteristica: devono essere, appunto, mirate. Se colpiscono nel mucchio, o se colpiscono la persona sbagliata, sono controproducenti per la causa che avrebbero dovuto servire, e diventano un’arma in mano alla causa che avrebbero dovuto combattere.

La discussione sulla fine da riservare ai nemici dell’umanità dura da secoli e secoli. «Era ora! Prendiamoci una sbornia / beviamo a viva forza: Mirsilo è morto». Così Alceo celebrava la fine del tiranno che l’aveva esiliato da Mitilene e inaugurava un genere letterario, il «nunc est bibendum» di Orazio: ora si deve brindare. Nella Grecia antica, la civiltà che inventò la democrazia, il tirannicidio era considerato un valore e gli ateniesi eressero una statua di bronzo ad Armodio e Aristogitone, che li avevano liberati dal despota Ipparco. E in America nessuno o quasi protestò quando fu impiccato Saddam Hussein. Quando poi venne ucciso Osama Bin Laden, la morte dell’uomo che aveva voluto l’11 settembre fu festeggiata a Ground Zero. A molti americani apparve naturale, se non giusto. Non esistono regole generali. Ogni personaggio fa storia a sé. La logistica finisce per contare più dei principi, e gli uomini che uccisero Bin Laden forse non potevano agire diversamente, così come forse per attentare alla vita di Dugin non si poteva agire diversamente.

In ogni caso sottoporre Osama Bin Laden – o, per attualizzare il discorso, Muhammad Al Zawahiri, il numero due di Al Qaeda ucciso da un drone americano di recente a Kabul, dov’era protetto dai talebani – a un regolare processo, magari davanti al tribunale internazionale costituito proprio allo scopo di provare e punire i crimini contro l’umanità, sarebbe stato un passaggio difficile per l’America, ma certo avrebbe rafforzato il suo prestigio di patria della democrazia moderna, uscita scossa dalle vicende dell’Iraq, di Abu Ghraib, di Guantanamo. È difficile avanzare rilievi agli uomini che liberarono il mondo dal fondatore di Al Qaeda e che un’intera nazione onorò, a cominciare dal presidente democratico Obama e da Hillary Clinton, che annunciò secca: «Bin Laden è morto, giustizia è fatta». Però non c’è dubbio che le buone cause non escono ridimensionate ma rafforzate da un procedimento giudiziario condotto secondo il diritto internazionale, che comprende anche le garanzie per i colpevoli.

Qualche anno fa si è riaperta in Italia la discussione sull’opportunità della fine di Mussolini. D’Alema definì un errore l’esecuzione per mano dei partigiani, subito corretto dall’allora segretario Ds Fassino. I realisti ricordarono che un processo al Duce sarebbe stato fonte di grandi imbarazzi, non solo per gli antifascisti dell’ultima ora, ma anche per le potenze alleate che l’avevano avuto come interlocutore (e, nel caso di Churchill, corrispondente) per anni. L’attentato a Dugin ricorda semmai l’attacco in cui fu ucciso Giovanni Gentile, il filosofo che aveva appoggiato il Duce pure nei mesi neri di Salò e dell’occupazione nazista: un crimine o un atto di guerra?

Nessun uomo davvero libero, se non qualche estremista o qualche derelitto animato dal rancore per l’Occidente, piange la morte dei tiranni e dei loro ideologhi. Però in questo caso è morta un’innocente, Darya Dugina. Davvero non so se siano stati gli ucraini, o l’opposizione russa, o addirittura il regime, in una contorta manovra per attribuire la responsabilità a Kiev. So che da oggi la Russia ha un pretesto in più per colpire, per allontanare la pace, di cui tutti avrebbero bisogno.