La buona notizia che, giornalisticamente parlando non fa notizia, a volte, riesce a imporsi. E, in tempi di Trump, di crisi economica, di minacce terroristiche e di generale diffidenza, assume il peso di una rarità e merita un posto nelle cronache. Come, appunto, sto per fare, raccontando un’esperienza personale, di per sé banale, che però si presta all’interpretazione in chiave positiva di uno degli aspetti più discussi della realtà elvetica: l’integrazione. Che ho visto funzionare, attraverso una fortunata esperienza, un paio di giorni trascorsi in una Zurigo che, complice i colori d’autunno, offriva il meglio di sé. A cominciare dal Landesmuseum, recentemente ristrutturato e ampliato da due giovani architetti, Christoph Gantenbein e Manuel Christ: in un edificio centenario un po’ «Heimatstil», hanno saputo innestare dinamismo e spettacolarità.
In questa nuova dimensione scenografica e grazie ai mezzi elettronici, gli oggetti esposti si animano, incuriosiscono e dialogano con il visitatore. A sua volta, lo spazio interno del museo dialoga con lo spazio esterno, attraverso oblò e fessure che rendono visibili ciò che sta fuori: il fiume, il parco, e soprattutto la gente. E gente impegnata in ruoli diversi. C’è chi questo museo l’ha costruito, chi l’organizza, chi lo tiene pulito, chi lo visita, vi studia, e via dicendo.
Ora, è proprio di loro, che si deve parlare, cioè di una presenza umana, ormai composita, alla quale questa città deve la sua immagine di efficienza, addirittura di emblema del perfezionismo nazionale. A Zurigo, infatti, tutto sembra filar liscio: strade senza buche, tram e autobus puntuali, prati rassettati, alberghi accoglienti, ristoranti per ogni palato, negozi per ogni esigenza, insomma un mix di funzionalità commerciale e di capacità creativa. Sono, appunto, questi luoghi e questi servizi che diventano i punti di riferimento per definire l’identità urbana, determinando la cosiddetta qualità di vita. Un ambito in cui le città svizzere si collocano ai primi posti. Ma a chi spetta la responsabilità e il merito di questa situazione privilegiata?
Certo, dipende dalle scelte di una gestione politica corretta, da quel connubio fra pubblico e privato, che caratterizza il sistema elvetico. Ma, poi, per diventare effettivo deve poter contare su persone disposte e capaci di tradurre idee e programmi in gesti concreti. In altre parole, autobus da guidare, case da costruire, pizze da sfornare, abiti da vendere, informazioni da trasmettere, e via dicendo. E chi sono queste persone? La risposta è scontata. E le mie giornate zurighesi me l’hanno riconfermando. Sono loro, gli immigrati, e spesso quelli della seconda o terza generazione, discendenti dai «Gastarbeiter» anni 60, a fornire le prestazioni indispensabili alla nostra quotidianità, anche vissuta da turista. Ecco, quindi, il servizievole portiere d’albergo, che mi parla in spagnolo, ma è kosovaro, l’abile commessa della boutique, una «secondo» di origine napoletana, il premuroso cameriere nel ristorante pizzeria, un serbo, che si sente zurighese. Ed è pure l’obiettivo dell’impiegato, nel «Museumshop», un tedesco che segue corsi intensivi di «Schwytzerdütsch».
Mi sono, insomma, trovata alle prese con un campionario umano, il cui comune denominatore è l’integrazione, in parte raggiunta in parte da perfezionare. Con effetti persino grotteschi. C’è, infatti, chi non si limita a diventare svizzero a pieno titolo, ma addirittura «supersvizzero». Esistono strumenti ad hoc. È il caso di «Neue Heimat Schweiz», un’associazione presente in varie località d’oltre Gottardo, che si propone di «trasmettere ai nuovi arrivati i valori e le virtù elvetiche». Si tratta di un universo curioso, osservato dall’inviata della «Neue Zürcher Zeitung» con un po’ di malizia. Anche il patriottismo può diventare una trappola a rischio di ridicolo. Non soltanto questi neosvizzeri espongono bandiere rossocrociate, si circondano di «oggetti devozionali dell’elvetismo», immagini del Grütli e statuine di Tell, ma c’è persino chi dichiara «di pagare con piacere le tasse perché il Paese funziona bene». E allora ha ragione il presidente dell’associazione quando sostiene che anche gli svizzeri avrebbero ancora molto da imparare.