Quando l’indignazione è sospetta

/ 03.12.2018
di Luciana Caglio

A prima vista, è potuto sembrare un fatto grave, tanto da meritare l’indignazione generale, sentimento oggi più che mai mobilitabile. Stiamo parlando dell’incidente di cui sono stati protagonisti, e poi vittime, Stefano Gabbana e Domenico Dolce, a Shanghai, lo scorso 21 novembre. Alla vigilia della sfilata, preceduta da uno spettacolo con divi famosi, davanti a una platea di 1500 selezionatissimi ospiti, insomma un evento speciale, come si dice in un gergo che non risparmia i superlativi, all’improvviso arriva il contrordine. La manifestazione dev’essere sospesa, per motivi dapprima oscuri. Poi chiariti. A buttare all’aria lo show, e, in pari tempo, a bloccare un’operazione commerciale miliardaria, erano stati tre spot: attraverso Weibo, il più cliccato social cinese, diffondevano un messaggio, evidentemente frainteso. Per pubblicizzare la presenza della sigla D&G nell’Impero di Mezzo, si era pensato di ricorrere a immagini destinate a illustrare il rapporto Italia-Cina, attraverso i simboli del folclore culinario. Ecco, allora, comparire una pizza, un piatto di spaghetti, un cannolo con cui si trova alle prese una bella ragazza cinese, che tenta di mangiare servendosi dei bastoncini. E, sorridendo, si arrende.

Niente sorrisi, invece, da parte dell’opinione pubblica e soprattutto delle autorità cinesi che, in questo spot, in verità basato su un banale stereotipo, hanno ravvisato un’offesa alla cultura e alla dignità nazionale, addirittura intenti razzisti e antifemministi. Scoppia un putiferio di grande portata mediatica che coglie di sorpresa i due stilisti siciliani, costringendoli a una raffazzonata autodifesa dai toni patetici, in cui rivelavano la loro passione per la cultura di una Cina amata e più volte visitata: «Dalla quale abbiamo molto da imparare». Infine, di fronte all’ondata di proteste popolari, cosiddette spontanee, a provvedimenti polizieschi, tipo agenti che per sicurezza presidiano le boutique D&G, e alla riprovazione da parte di personaggi illustri, Dolce e Gabbana fanno pubblica ammenda. Un video li ritrae, visibilmente preoccupati, mentre chiedono scusa.

A questo punto, l’episodio si carica di altri significati. Da semplice fatto di cronaca diventa fatto politico. E qui, dove è avvenuto, sembra riallacciarsi alla tradizione storica dei processi, intentati per motivi pretestuosi. Con un’evidente differenza: oggi, nell’era della Cina, potenza economica, i reati, almeno quelli a nostra conoscenza, non sono più d’ordine ideologico ma finanziario o industriale. Come ben rileva Danilo Taino sul «Corriere della Sera», commentando il caso D&G: «Ovunque, un imprenditore può fare un errore, usare un linguaggio inopportuno. Di solito sono i consumatori e il mercato a stabilire la gravità del fatto. Solo in Cina è costretto a produrre un video umiliante nel quale fa autocritica come ai tempi della rivoluzione culturale di Mao».

Ma da questa vicenda emerge ancora un altro aspetto inquietante, e, tanto più perché ci concerne da vicino. Infatti, anche nei paesi democratici, dov’è consentito, si restringe lo spazio che spetta all’umorismo. In particolare per quel particolare filone, definito sense of humour (l’inglese qui è d’obbligo), che sottintende la capacità di relativizzare guai pubblici e privati. Non si tratta di banalizzarli, piuttosto di affrontarli ricorrendo alla valvola di sfogo dell’ironia, dell’allusione scherzosa, della vignetta che colpisce nel segno, della pagina irriverente. Strumenti che, rischiano di andare in disuso, che hanno innescato un circolo vizioso. Da un lato, si disimpara l’arte di fare umorismo e, dall’altro, la disponibilità mentale ad accettarlo. Anzi, si assiste alla tendenza opposta.

Cresce una nuova forma di suscettibilità, provocata magari con le migliori intenzioni dal politically correct, che ci trasforma tutti, in un modo o nell’altro, in vittime di un’offesa, capaci d’indignarsi e non più di ridere sulle cose che capitano. Tempo fa, un collega d’oltre Gottardo rivolgeva ai politici l’invito a ricorrere all’umorismo, per migliorare la qualità dei loro discorsi. Ma qui sta una micidiale insidia: capita (dando di questi tempi un’occhiata oltre frontiera) che i politici riescano a far ridere. Ma involontariamente.