Quando la violenza di regime rimane impunita

/ 31.05.2021
di Paola Peduzzi

Quando Roman Protasevich è stato portato via assieme alla sua fidanzata dalle guardie bielorusse ha detto a un passeggero dell’aereo su cui aveva viaggiato: «Rischio la pena di morte». La pena di morte? Un attivista democratico di ventisei anni che organizza proteste contro il regime bielorusso senza viverci più, sotto quel regime, ma girando tra Polonia e Lituania, rischia la pena di morte? Sì, è accusato di terrorismo. Le sue attività eversive, secondo il regime, sono iniziate prestissimo. Era il 2011 quando Protasevich, allora sedicenne, fu espulso da scuola perché aveva partecipato a una protesta. Da quel momento è stato seguito e minacciato, fino a che nel 2019 è scappato, è diventato uno dei registi in esilio della protesta digitale contro Aleksandr Lukashenko: è stato condannato in contumacia come terrorista.

La storia di Protasevich è diventata un caso internazionale dopo che le autorità bielorusse hanno fatto atterrare a Minsk l’aereo su cui viaggiava. Era partito da Atene e andava a Vilnius, in Lituania. Un Mig-29 armato ha affiancato l’aereo di linea mentre al pilota del volo Ryanair veniva detto che c’era un allarme bomba e che avrebbe dovuto fare un atterraggio d’emergenza nell’aeroporto più vicino, quello della capitale bielorussa. Si è scoperto dopo che non c’era nessuna bomba e che Minsk non era nemmeno l’aeroporto più vicino, ma il Mig c’era e anche la volontà del regime di dirottare un aereo per poter arrestare un giovane dissidente, attivo e innovativo. Ventiquattro ore dopo la sua cattura è stato pubblicato un video in cui Roman Protasevich confessa di aver tramato contro Lukashenko e dice di essere stato trattato nel modo più corretto possibile. Nel filmato si vede un livido sulla fronte e il colore della pelle più scura fa pensare a un grosso strato di cerone per coprire la tumefazione. La «confessione» poi è forse il frutto della sua paura più grande: come stanno trattando la sua fidanzata?

È sempre più diffusa in Bielorussia la pratica del ricatto e della minaccia ai parenti: tu puoi anche scappare, eversore, ma qui resta la tua famiglia cui far pagare il prezzo della tua disobbedienza (i genitori di Protasevich sono già andati a vivere a Varsavia l’anno scorso). Roman Protasevich è l’ultimo, eclatante e doloroso esempio di come funziona la repressione del regime della Bielorussia. Le proteste sono cominciate nell’agosto dell’anno scorso quando Lukashenko, al potere da 27 anni, si è dichiarato vincitore delle elezioni pur senza esserlo. Sviatlana Tsikhanouskaya, che si era candidata quando suo marito, il candidato dell’opposizione, era stato arrestato qualche mese prima del voto, avrebbe ottenuto il 60 per cento dei voti. Ora guida l’opposizione dalla Lituania, perché anche per lei la vita in Bielorussia sarebbe stata troppo pericolosa. Da allora la violenza di Stato si è mossa in due direzioni. La prima: la violenza fisica, gli arresti, le sparizioni, le morti «improvvise».

Ci sono più di 400 prigionieri politici oggi nelle carceri bielorusse, posti che vengono ogni tanto descritti da chi riesce a uscire come un inferno di torture e minacce. Il numero degli scomparsi è invece sconosciuto: ci sono tantissime segnalazioni, e quasi sempre si tratta di giovani. Poi c’è la violenza psicologica: i manifestanti vengono definiti «moscerini» o «scarafaggi». Ricordiamo che Stalin chiamava i suoi oppositori «parassiti»... Se i dissidenti sono insetti fastidiosi e invadenti, non esseri umani, non bisogna sentirsi male all’idea che vengano sterminati. C’è per questo un grosso numero di filmati resi pubblici dallo stesso regime in cui vengono riprese le ultime ore di persone che muoiono in prigione, rappresentate come deboli o colte da malori, non come sopraffatte dalle torture.

Nonostante la violenza di Lukashenko sia nota e testimoniata, nonostante le sanzioni al regime e ora anche i divieti di volo imposti a molte compagnie aeree in reazione al dirottamento per catturare Protasevich, Lukashenko ha giurato come presidente e lavora alla propria sopravvivenza grazie soprattutto al sostegno della Russia di Vladimir Putin. Da tempo si cerca di decifrare questa relazione, perché si sa che il presidente russo agisce in base alle opportunità, non alla lealtà, ma il risultato è comunque evidente. Come Bashar al Assad, rais siriano sostenuto da Putin, ha appena «rivinto» le elezioni pur avendo sterminato buona parte della sua popolazione, così Lukashenko continua a operare senza troppi ostacoli. Il patrocinio russo serve a questo: a superare indenni l’indignazione dei Paesi occidentali.

L’ultimo video che è stato reso noto dal regime bielorusso è quello del dissidente Vitold Ashurok che muore cadendo in cella per un malore e batte con violenza la testa. Il cadavere è stato restituito alla famiglia tutto bendato, «scivolato mentre lo prendevamo dal frigorifero», hanno detto le autorità del carcere. La famiglia ha scelto di seppellirlo senza guardare sotto le bende.