Quando la solitudine non è più una scelta

/ 05.10.2020
di Luciana Caglio

Spie della quotidianità, le parole cambiano significato e valore, a seconda dei tempi. E la pandemia ha accelerato il ritmo di un’incessante e naturale evoluzione. Proprio solitudine ne è un esempio fra i più rivelatori e radicali. Oggi sta a indicare una limitazione, imposta a tutela del bene comune. Mentre, fino a ieri, esprimeva una scelta di libertà individuale: isolarsi in cerca del proprio benessere. Negli ultimi decenni era diventata persino una forma di snobismo, che ha contraddistinto le abitudini di viaggiatori e vacanzieri, impegnati a scovare mete e itinerari al riparo dalla folla, e quindi dalla promiscuità e dal bailamme. Reazione, del resto, legittima nei confronti del turismo di massa che, sfociando nell’«overtourism», aveva reso per così dire infrequentabili le località tradizionalmente più attraenti. Comprensibile, quindi, da parte di chi già le conosceva, il rifiuto di visitarle. In verità, le immagini e le notizie che, nell’estate 2019, arrivavano da Venezia, Barcellona, Dubrovnik e, in Svizzera, da Lucerna erano quanto mai dissuasive. Persino i diretti interessati in loco, commercianti, ristoratori, albergatori, responsabili di mezzi di trasporto denunciavano uno stato d’emergenza: il troppo che storpia, insomma. Ora, è bastato un anno, e che anno, per rovesciare la situazione. Quel silenzio, quella tranquillità, quel vuoto non sono più uno sfizio individuale, riservato a pochi, bensì un guaio collettivo che implica il dovere della rinuncia, da accettare nostro malgrado.

Non tutti, però, hanno vissuto la nuova solitudine obbligatoria come una restrizione mortificante, abbinata, nei mesi del lockdown, alla sedentarietà forzata. Vi si sono adeguati, agevolmente, per senso civico e morale, e non solo. Infatti, sono riusciti ad apprezzare i vantaggi, addirittura i piaceri, di una quotidianità all’insegna del «fare a meno». Cioè, una tendenza a evitare eccessi consumistici, che era già nell’aria, favorita dal successo politico dei verdi. Ma per i campioni della rinuncia dell’era Covid, il concetto «fare a meno» si è allargato, superando le disposizioni delle autorità, destinate a limitare l’afflusso agli stadi, alle sale da concerto, ai teatri, possibili focolai di contagio. Come succede agli integralisti, loro vanno oltre evitando contatti umani elementari e spontanei: incontri con amici, colleghi, coinquilini. E, ovviamente, astensione assoluta da viaggi e vacanze. Si assiste a una sorta di puritanesimo da eremita: unica compagna di vita la solitudine che, a quanto pare, dovrebbe favorire la creatività. Quanti romanzieri, filosofi, artisti ci regalerà la pandemia? C’è di che preoccupare una giornalista, alle prese con una possibile valanga d’inviti a recensioni di libri e a inaugurazioni di mostre. Ironie a parte, sta di fatto che anche la solitudine comporta rischi.

Non mancano in proposito seri avvertimenti. Dalla solitudine al solipsismo, letteralmente «solo su se stesso», cioè ripiegamento e autocompiacimento, il passo è breve. Lanciava quest’allarme, fra altri, Thomas Bernhard, scrittore austriaco di multiforme talento, rievocato, lo scorso anno in un convegno a Milano, nel trentennale della morte. Gli spetta anche il merito di aver usato la parola «escapismo»(dall’inglese escapism), per definire lo spontaneo bisogno di fuggire dalla realtà, rifugiandosi nella leggendaria isola felice. Smaltita, però, l’euforia liberatoria, in un luogo dove nessuno ti conosce, si fa sentire il bisogno del ritorno fra chi ti conosce e con cui si scambiano sentimenti, opinioni, esperienze sul filo della reciprocità.

Pro o contro la solitudine? Meglio soli che male accompagnati, per dirla con un proverbio popolare o, «l’inferno sono gli altri», per citare Sartre, la solitudine rimane un tema dibattuto, che divide sul piano pratico e su quello ideologico. Così sino al gennaio 2020, da quando anche la solitudine non è più quella che era. Per via, paradossalmente, di un’incognita, un virus che chissà da dove arriva e quando se ne andrà. Intanto sta esercitando un influsso subdolo sui detentori del potere. Compresi quelli che governano le nostre democrazie, costretti a fare la voce grossa, a imporre disciplina, a limitare le libertà. C’è il rischio che ci prendano gusto, e l’emergenza diventi permanente.