In Afghanistan lo sport femminile è bandito. Figurarsi poi per una attività come il ciclismo, da praticare in maglietta e pantaloncini corti. Dal 15 agosto dello scorso anno, da quando i Talebani, approfittando dell’uscita di scena del contingente USA, hanno instaurato il loro regime fondamentalista, per le donne afghane si sono aperte le porte dell’inferno. In molte (e in molti), hanno beneficiato dei corridoi umanitari per abbandonare il paese. Hanno trovato asilo in più parti del globo. Alcune anche in Svizzera. Molte donne hanno quindi potuto riappropriarsi dei diritti fondamentali, di cui erano state private con violenza disumana e spietata, da parte dei guardiani della morale, talvolta fino alle estreme conseguenze. Fra questi, il diritto di praticare lo sport.
Alcune di loro, il climax della ritrovata libertà lo hanno assaporato domenica 23 ottobre a Aigle, al Centro Mondiale di ciclismo dell’Unione ciclistica internazionale (UCI). Sulla località vodese aleggiava lo spirito di Hein Verbruggen, dal 1991 al 2005 controverso presidente federale. Ma se il ciclismo, a partire dagli anni ’90, ha vissuto un costante processo di mondializzazione, lo si deve soprattutto a lui. Da quegli anni sono atterrati sul pianeta-bici corridori dell’est europeo, americani, canadesi, australiani, colombiani. Quindi, con cauta lentezza, è stato il turno di asiatici e africani. Fu proprio Verbruggen a volere il Centro di formazione e di prestazione, dove dal 2002 sono transitati i potenziali campioni provenienti dai paesi più poveri e meno attrezzati. Fra questi, in quanto keniano, anche un fenomeno come Chris Froome, capace di vincere 4 Tour de France, 2 Vuelte di Spagna e 1 Giro d’Italia.
Aigle il 23 ottobre è stata la sede neutrale dei Campionati afghani femminili di ciclismo. Una giornata di festa, di emozioni e di solidarietà. Sulla linea di partenza si sono presentate 49 ragazze, esuli in Canada, Germania, Italia, Albania e Svizzera. Alcune di loro, fino a un anno fa, non avevano mai gareggiato. Altre, che non avevano i mezzi per procurarsi una bicicletta, hanno potuto partecipare alla competizione grazie a tangibili aiuti che sono partiti anche dal Ticino. Le 19 «italiane», che vivono a L’Aquila in uno stabile lasciato libero dalla popolazione terremotata, erano reduci dal pieno di emozioni vissute da ospiti d’onore alla recente presentazione dell’edizione 2023 del Giro d’Italia. Per loro fortuna, le partecipanti al Campionato nazionale non hanno dovuto affrontare mostri come il Mortirolo o lo Zoncolan. Solo 57 km di corsa, con un dislivello tutt’altro che massacrante. L’importante era esserci. Lanciare un segnale, un appello alla comunità internazionale. Ha vinto la 19enne Fariba Hashimi. Gareggia sotto le insegne della Valcar – Travel & Service, che proverà a dare continuità alla sua carriera, e a quella di altre sue giovani connazionali. Due settimane prima era giunta 33.esima nel Mondiale di Gravel, a 37’ dalla vincitrice, l’étoile francese Pauline Ferrand-Prevot. Sua sorella maggiore Yulduz, 39.esima e ultima nella gara iridata con un ritardo di oltre 1 ora e mezza, è salita sul secondo gradino del podio. Il bronzo è finito al collo di Zahara Rezayee.
Qualcuno mormora che la vittoria avrebbe potuto arridere a Masomah Alizada, che lo scorso anno giunse 25.esima nella crono olimpica di Tokyo, disputata sotto le insegne degli atleti rifugiati del CIO. Qualcun altro sostiene che l’esperta 26enne abbia voluto restare tranquilla nella pancia del gruppo, affinché altre ragazze potessero raccogliere soddisfazioni e stimoli per proseguire. Se così è, chapeau! Emozioni, abbracci, sorrisi, cadute, lacrime di gioia e di dolore non sono mancate. Lo sport, per fortuna, sa anche disegnare storie che regalano speranza. Come quella delle sorelle Najla, rifugiata in Canada, e Karima, che ha trovato asilo in Abruzzo. Non si vedevano dai tempi della loro rocambolesca fuga dall’Afghanistan, avvenuta più di un anno fa. Si sono riabbracciate a Aigle, in Svizzera, in quello splendente e per loro memorabile 23 ottobre 2022.