Quando il gender sbanda

/ 25.09.2017
di Luciana Caglio

Come dire, anche una buona causa, qual è la parità dei sessi, se va fuori controllo, produce gli effetti opposti, precipitando addirittura nel ridicolo: involontario ma irrimediabile. L’ultimo di questi incidenti di percorso, ormai frequenti, è avvenuto nel Regno Unito, patria del sense of humour, virtù questa volta smentita. Come ha dimostrato, suo malgrado, il direttore delle scuole secondarie di Lewes, nel Sussex, con la decisione di adottare l’uniforme cosiddetta gender neutral, uguale per lui e per lei. 

In teoria, l’obiettivo era cancellare una disuguaglianza, di cui sin qui sarebbero state vittime le ragazze. In pratica, per risolvere il problema, se problema era, è stata introdotta la norma del pantalone generalizzato. Al bando, invece, la gonna, legata a una figura femminile fragile e frivola, ormai fuori epoca. Di conseguenza, il pantalone obbligatorio si presentava alla stregua di una nuova conquista femminista, sulla strada, sempre in salita, della parità. A ben guardare le cose sono andate diversamente: a un’intera collettività di giovani d’ambo i sessi, uomini e donne, si è imposto un capo d’abbigliamento maschile. Ovviamente impensabile l’opposto, tutti in sottana. Ma allora chi ha vinto?

Mettiamola sul ridere, sfruttando gli aspetti grotteschi di questo e tanti altri episodi, spacciati per scelte progressiste e, in realtà, ambigue. E sempre più in perdita di credibilità, da parte di un’opinione pubblica che si sente presa in giro. Non hanno certo convinto, anzi, gli argomenti con cui il direttore delle scuole di Lewes ha cercato di giustificarsi: «Si tratta di venire incontro ad allievi, alle prese con un’identità sessuale confusa». Non sono mancate le repliche: «Ma qui chi è il vero confuso?»

In altri casi, poi, un sedicente obiettivo morale-educativo diventa uno strumento pubblicitario: a Londra, i grandi magazzini John Lewis hanno abolito la definizione «maschio/femmina» nell’abbigliamento per bambini. Una trovata chissà se efficace, comunque se n’è parlato.

Certo, negli ultimi anni, soprattutto nei paesi più evoluti, dove ci si può concedere questo lusso, il tema del gender ha trovato le più svariate applicazioni. Negli USA, campioni in questo tipo di crociate moralistiche, parecchi locali pubblici hanno abolito nei WC la separazione «signore/signori», in nome di un’uguaglianza che dal profilo fisiologico rimane comunque impossibile. In Francia, si è provveduto a depurare le favole dalle scorie maschiliste, incoraggiando le bambine ad assumere, nelle recite, il ruolo del lupo, cioè del più forte, persino del cattivo; cioè pari ai maschi anche nei comportamenti negativi, delinquenza compresa. E che dire, infine, della proposta di sostituire le parole mamma e papà con quella, asessuale, di genitore.

Si sta, infatti, assistendo agli abusi e ai malintesi che, spesso, preannunciano la fine di una tendenza, o moda, di successo. Negli ultimi tempi, gli stessi ambienti universitari, che avevano tenuto a battesimo il gender, ne denunciano, invece, gli abusi e le assurdità. Si parla di «overdose di gender», di nuova «oppressione libertaria», ossimoro evidente. E, secondo una ricerca compiuta, figurarsi, in Norvegia, sarebbe priva di basi scientifica la teoria che «le attitudini non sono innate ma apprese da imposizioni culturali». 

In altre parole, è naturale che la bambina giochi con la bambola e il maschietto con il fucile, come vuole una mentalità conservatrice, tornata alla ribalta, in nome di un buon senso riabilitato.

In definitiva, però, a farne le spese saranno rivendicazioni femminili tutt’altro che campate in aria. Nella nostra Svizzera benestante, al vertice nelle statistiche mondiali in quanto a spirito innovativo nelle tecnologie, si marcia sul posto per quel che concerne la parità salariale, le prospettive professionali nei livelli più alti, gli orari e i congedi in grado di favorire l’abbinamento lavoro retribuito-lavoro domestico. Stando ai dati dell’Ufficio federale di statistica, le donne, per conciliare i ruoli, sono costrette ad attività a orario parziale, dove si guadagna meno. Ma, in complesso, lavorando di più: 70 ore settimanali, di cui 53 dedicate alla casa e alla famiglia. 

Una nota positiva c’è. Cresce la partecipazione maschile ai lavori domestici: 29 ore settimanali, cioè quasi 2 ore in più rispetto al 2010.