Quando gli oggetti diventano virtuali

/ 27.11.2017
di Luciana Caglio

La Svezia è praticamente cash free. Ha conquistato il primato, addirittura mondiale, nella graduatoria dei paesi passati dal contante al virtuale: il 99% dei pagamenti avviene mediante carta di credito o telefonino. E così un uso riservato ad acquisti importanti o a situazioni particolari si è generalizzato. Concerne, ormai, spese d’ordinaria amministrazione, comprese quelle minute, il caffè o la birra al bar, il giornale, l’ingresso al cinema, la corsa in taxi o in tram, e non soltanto. Persino l’obolo raccolto durante la messa o per accendere una candela è diventato elettronico. Ciò che non ha mancato di sorprendere, addirittura scandalizzare, come succede quando s’interviene in un luogo simbolo di tradizioni intoccabili. Tanto da fare notizia, nelle cronache internazionali, suscitando ironie e sospetti: ma allora le chiese potranno controllare offerte che, sin qui, rimanevano anonime? E, allargando il discorso carità, come la mettiamo con i barboni, che, anche nella supersocializzata Stoccolma, tendono il cappello capovolto in cui versare monetine o banconote? Commenti trascurabili per le autorità svedesi, che, invece, rilevano gli effetti salutari del cash free: diminuiscono spaccio di droga e lavoro nero. Non si nasconde, però, un possibile aumento di truffe informatiche e, infine, maggiori difficoltà per gli anziani, refrattari alle tastiere.

Con ciò, anche questo progresso informatico ha fatto la sua vittima illustre. Eliminando banconote e monete, scompare il danaro, nella forma concreta di oggetto, che oltre il valore ufficiale del momento, possiede un plusvalore d’ordine artistico, storico, culturale. In proposito, è esemplare il caso della Svizzera. Con la sua stessa fisionomia, il franco sembra esprimere tipiche virtù nazionali: l’accuratezza, la solidità, l’attenzione grafica. Forse così si spiega la fedeltà all’utilizzo del contante, nelle nostre abitudini quotidiane. Ma è soltanto un’ipotesi, o l’auspicio di riuscire, conservando gli oggetti, a frenare la corsa del tempo che ci mette, sempre più spesso, di fronte a scelte imbarazzanti: quali oggetti personali e pubblici conservare e quali buttare, e cioè privilegiare funzionalità, praticità, rapidità o difendere i contenuti affettivi, la consuetudine, la continuità di oggetti, strumenti, meccanismi ormai compagni di vita?

L’interrogativo è insidioso. Soprattutto per i meno giovani, chiamiamoli così, che nel rapporto con l’avvento del virtuale non vorrebbero perdere la faccia, e, d’altra parte, neppure negare l’appartenenza a un’era, ormai conclusa. Quella anteriore allo smartphone.

Fu, infatti, l’avvio di un processo di sostituzione a ritmi accelerati e implacabili. Prima vittima proprio il telefono fisso, con relative cabine. Di cui rimane, a titolo storico-decorativo, la versione londinese, dipinta di rosso. Fu, poi, la volta della macchina fotografica, con relativi rullini, album, e, non da ultimo, le cartoline postali: tutta roba spazzata via dal selfie, che ha facilitato, e insieme banalizzato, lo scatto di immagini.

E sempre, per via di una app, stanno scomparendo le sveglie. E, a quanto pare, persino l’orologio da polso, già simbolo di ricorrenze famigliari e di prestigio sociale. Addio Rolex, insomma? Alla stessa stregua, diventano superflue cartine topografiche e geografiche: l’auto sa già dove condurci.

Infine, e qui si tocca un ambito delicato, addirittura doloroso per gli addetti ai lavori e gli appassionati, i libri stampati su carta, e i giornali con loro, cedono il posto ai tablet, in nome di un’innegabile praticità. Un’intera biblioteca concentrata in un rettangolo portatile, leggibile in qualsiasi luogo e situazione: la conquista è fuori discussione.

Però a questo punto, il rapporto perdita-guadagno assume connotati difficili da valutare. Nei confronti dei libri entra in gioco la passione rivolta a un oggetto che, proprio accumulandosi nel tempo e nelle dimensioni, può trasformarsi in una collezione, magari preziosa e utile, oppure scadere in mania, fanatismo, idolatria. Citando, una volta di più, l’impareggiabile Gillo Dorfles: «Oggi si assiste all’horror vacui, la paura di spazi vuoti da riempire a ogni costo». Troppe cose, dunque. Ma i libri non sono soltanto cose.