Se non a Natale, perlomeno a inizio anno sarete incappati anche voi in qualche ammiccante video pubblicitario del nuovo iPhone, lo smartphone presentato in quattro modelli a inizio ottobre dalla Apple di Cupertino in California. O magari avrete letto una delle tante promozioni mediatiche sulla sua presentazione, evento da «mondovisione» che gli specialisti non perdono mai (e su questo fanno molto affidamento anche i guru della Apple). Se è così, ho paura che quanto dirò di seguito potrà aggiungere ben poco alle vostre conoscenze in materia. E questo nonostante l’idea di parlare dei progressi tecnologici mi sia giunta leggendo un articolo pubblicato su «La Lettura» da Sabino Cassese, editorialista del «Corriere della Sera» e del «Foglio», e abbia poi reperito le informazioni tecniche sul nuovo apparecchietto sfornato della Apple dalla recensione di Ernesto Assante, esperto di «Repubblica» di nuove tecnologie.
In avvio ho una domanda che mi insegue da tempo e che ritrovo nella mente non appena vedo qualcuno all’opera con un telefonino: come mai lo «smartphone», nonostante la molteplicità degli usi e un continuo sforzo per dotarlo di mille altre funzioni, molte delle quali non sappiamo nemmeno che esistono, come mai per tutti coloro che lo acquistano continua a essere fondamentalmente solo un telefonino? L’interrogativo non si collega solo alle mirabolanti prestazioni dei nuovi modelli, riguarda anche le novità tecnologiche e le analisi tecniche (i due termini spesso vengono scambiati per sinonimi ma in realtà si differenziano: la tecnologia riguarda la creazione delle macchine, mentre la tecnica tocca solo il funzionamento) e arriva sino alla nostra difficoltà, che nel mio caso è frammista a una naturale riluttanza, a capire una straordinaria realtà: i moderni dispositivi elettronici sono in grado di compiere meraviglie, tanto che le loro prestazioni, come dice Assante, possono «cambiare la nostra vita, le nostre abitudini, la nostra idea del mondo». Invece, nonostante miglioramenti sempre più sofisticati e prodigi elettronici in atto da qualche anno, gli «smartphone» continuano a essere usati, visti, acquistati e usati essenzialmente come macchine per comunicare e per fotografare (in realtà, spiegano i tecnici, più che fotografare essi compongono: a seconda del tasto premuto, in una frazione di secondo selezionano milioni di pixel e montano foto, video, fototesti e film digitali da diffondere in tutto il mondo alla velocità di un battito di ciglia). Al massimo sono «nuovi utensili» utili anche per altre funzioni, tipo scrivere e trasmettere messaggi, riprodurre milioni di brani musicali e sfornare applicazioni che vanno dal collegamento web all’evasione.
Pochissimi di noi sono però in grado di utilizzare appieno la potenza della meraviglia che portiamo in tasca. Come ricorda Sabino Cassese su «La Lettura», lo «smartphone» è migliaia di volte più performante rispetto al supercomputer lungo 10 metri e pesante 18 tonnellate che Ibm presentò nel 1961 (sessant’anni fra pochi mesi!); eppure, cosa ancor più incredibile in epoca consumistica, esso costa 7 mila volte meno del suo antenato della Ibm che oltretutto garantiva funzioni utili solo a matematici, scienziati e ricercatori, incapace quindi di fare fotografie (solo lo scorso anno le memorie digitali dei telefonini ne hanno caricate e spedite oltre duemila miliardi. Pensate: una per ogni dollaro promesso dal presidente Biden per gli aiuti post-Corona agli americani!), come pure di comunicare e spedire messaggi alla gente dei cinque continenti senza costi e in pochi secondi. Oggi invece miliardi di persone usano supercomputer tascabili praticamente «solo» per prestazioni e servizi che i geniali creatori della macchina dell’Ibm non avrebbero mai immaginato.
Da questi nostri atteggiamenti si approda a una triste e sconcertante conclusione: in definitiva continuiamo a sfruttare solo una minima percentuale (circa il 5%) della potenza e delle capacità dei dispositivi che lo «smartphone» può attivare e far lavorare per noi; quindi il telefono del terzo millennio è sicuramente «smart», cioè intelligente, ma noi, altrettanto di sicuro, lo siamo un po’ meno. Il perché ce lo spiega ancora Assante: fondamentalmente siamo dei pigri e la nostra pigrizia ci spinge a dimenticare che il supercomputer che abbiamo in tasca sia «una delle chiavi del nostro futuro e che se sapessimo usarla bene, meglio, potrebbe davvero farci scoprire qualcosa di interessante, di utile, di comodo, di davvero “intelligente”». Invece preferiamo illuderci che gli intelligenti siamo noi, anche se lo usiamo solo per telefonare, fare foto, ascoltare musica, scrivere 160 battute, o magari solo per giocare. Cercando un paragone per spiegare questo controsenso, è un po’ come se, ogni volta che vogliamo portare in tavola 100 grammi di insalata, noi ne comperassimo trenta o cinquanta chili. A conferma di una caustica definizione del poeta Guido Ceronetti: il cellulare è «una pulce che ha uno stomaco da elefante»!
Pulce con stomaco d’elefante
/ 25.01.2021
di Ovidio Biffi
di Ovidio Biffi