Povertà, nepotismo, corruzione, ingerenza all’estero, conquista all’estero, repressione. Nella sua ultima canzone il rapper iraniano Hichkas (vuol dire «nessuno») denuncia il regime degli ayatollah, la loro brutalità contro «il nemico», che sarebbe il popolo iraniano, canta dei ragazzi presi dai letti d’ospedale e portati in prigione, mentre sotto si sentono le voci della piazza: non sparate, non sparate. Pugni alzati, così s’intitola la canzone di Hichkas, che vive a Londra dal 2011, è diventata la colonna sonora delle proteste che sono scoppiate nel novembre scorso in Iran, dopo che il regime ha annunciato l’aumento del prezzo della benzina.
Hichkas l’aveva postata su Twitter, era stata subito ripresa moltissimo dai giovani che si riconoscevano in quel triste lamento, ma poi l’accesso alla rete era stato negato e così il ritornello è diventato un passaparola, una segnale, quasi un incoraggiamento. E quando nelle ultime proteste i manifestanti gridavano che il nemico non è all’estero, il nemico non è nemmeno il popolo come vuole far credere il regime, il nemico «è qui», è il regime stesso, qualcuno intonava anche la canzone di Hichkas.
La frequenza delle proteste in Iran è aumentata: durano poco perché la repressione è sistematica, ma poi ricominciano. Nei giorni convulsi che hanno seguito l’uccisione da parte americana del generale Soleimani abbiamo visto la mobilitazione del regime in tutta la sua forza: questa è la piazza che gli ayatollah vogliono mostrare, l’orgoglio di una nazione ferito dall’imperialismo piratesco dell’America. Fiumi di gente, centinaia di foto (anche quaranta morti). Poi, quando il regime ha infine ammesso che nella notte della rappresaglia contro gli americani ha erroneamente abbattuto un aereo di linea (con due missili), è tornata la piazza dei pugni alzati, quella che non ne può più, e l’abbiamo vista perché per mostrarsi ferito e vendicativo, l’Iran aveva aperto le porte all’esterno.
L’ideologia e la religione non contano più, nell’Iran di oggi. Conta che la promessa di benessere sottostante all’accordo sul nucleare del 2015 non è stata mantenuta. Ed era decisiva, invece, era il motivo per cui dopo la firma di quell’accordo c’era stata una festa per strada, una festa dello stesso popolo che pure già manifestava contro il regime, perché in quella firma c’era l’impegno a riaprirsi al mondo, al dialogo, alla possibilità di uscire da un isolamento che sapeva di troppa povertà. Il popolo iraniano non festeggiava perché tutt’a un tratto si era ricreduto sul regime – a dire la verità i falchi del regime non lo amavano affatto, quell’accordo – ma perché voleva fidarsi quando il presidente, Hassan Rohani, annunciava politiche per la crescita, investimenti, redistribuzione. La promessa è stata tradita e non perché l’Amministrazione Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo: è stata tradita da Teheran, che ha preferito investire i nuovi proventi nel suo sogno espansionista in Medio Oriente invece che nel rilancio economico dell’Iran.
Il punto di rottura è stato raggiunto quando la consapevolezza del tradimento è diventata chiara, e non c’entrano l’arricchimento dell’uranio né la polizia del pensiero né le brutture ideologiche del regime. C’entra il fatto che un paese con le risorse dell’Iran, dopo quarant’anni di isolamento indotto dalla Rivoluzione, aveva creduto di potersi riscattare, e di poter smettere di mendicare o di dover risparmiare per mesi soltanto per permettersi un pollo in più a settimana.
Il dominio rivoluzionario del 1979 non si è crepato perché mancano slancio o devozione religiosi o perché la fazione sciita è meno forte di quella sunnita: basta vedere come la «rule iraniana» si è sfasciata pure in altri paesi, in Libano o ancor più in Iraq, dove le piazze non urlano «morte all’America» o «morte a Israele» o «morte ai sauditi», ma chiedono cibo, soldi, opportunità per il futuro. Sulla rete – finché funziona – ci sono appelli per continuare a dimostrare «contro il regime corrotto» dell’Iran: la piazza vuole far sentire la pressione, chiede sostegno all’estero e mentre noi ci interroghiamo sul fatto che questo sostegno possa risultare controproducente per gli stessi manifestanti accusati di essere eterodiretti da forze straniere nemiche, loro sfidano la repressione, si contano per vedere chi manca, vanno a cercarsi, alzano i pugni, «non hanno lacrime quando vengono colpiti dai lacrimogeni», come canta Hichkas, e no, «non è ancora finita».