Non so se sia una questione di continente, di lingua, di cultura. Ma tutte le volte che seguo una serie televisiva americana, cioè prodotta negli Stati Uniti, rimango perplessa. Non per la trama o i fatti, che naturalmente devono subire forzature per seguire il ritmo della fiction, ma per un altro aspetto: tutti i personaggi soffrono di parresìa, di totale libertà di parola. Non che siano tutti buoni, anzi, tradiscono, picchiano, uccidono e mentono, anche.
Ma, davanti all’amico o al parente, dicono quello che pensano della propria come dell’altrui situazione esistenziale. E in genere non subiscono nemmeno conseguenze negative da questo loro agire, se vengono traditi o abbandonati non è per quello che hanno detto, ma per mille altri motivi. Si assiste quindi, seguendo una serie televisiva, a un paradosso: nei fatti la vita viene presentata come un succedersi di avvenimenti catastrofici e spesso cruenti, quando non mortali, però i protagonisti non risultano turbati nella loro integrità relazionale. Cerchiamo un esempio: spesso le serie sono ambientate in qualche sezione della polizia oppure in ospedale, luoghi sanguinari già di per sé. Spesso poi gli stessi investigatori o gli stessi medici sono coinvolti, vuoi perché il cattivo se la prende con loro, vuoi perché proprio loro, o una persona a loro cara, si ammala o incorre in un incidente.
Quindi, nel nostro ipotetico esempio, immaginiamo Tom, cardiochirurgo, che vede arrivare dal pronto soccorso la moglie all’ottavo mese di gravidanza colpita da infarto, mentre un camion investiva lei e la figlioletta di tre anni, autistica. Tom si spaventa, piange, si offre per intervenire in prima persona. Ma la sua collega cardiochirurga, che è la sua amante, gli dice: No, Tom, ora quello che importa è la felicità della tua famiglia, opererò io tua moglie e John si occuperà di sapere dove è finita tua figlia, tu sei troppo coinvolto, e poi sai che l’emotività – che peraltro fa di te un uomo così sensibile – potrebbe giocarti brutti scherzi. E Tom: Oh Lizabeth, non sei solo una splendida amante, ma anche una grande donna, tuttavia devo chiederti di andare a riposare perché non dormi da due giorni, non devi pretendere troppo da te stessa, sai che è un tuo difetto non delegare mai. Mandiamo John in sala operatoria: ehi John, supera le tue perplessità, sei perfettamente all’altezza di questo intervento che ha una bassissima possibilità di riuscita, ma nessuno se la prenderà con te.
Oppure, nella sede di una squadra che si occupa di rapimenti vediamo Callie, rivale di Terry nella lotta per la promozione a capo nonché per la conquista del cuore del bel sergente, che si preoccupa perché Terry non è ancora arrivata in ufficio. Terry arriva trafelata, hanno rapito il suo vicino di casa, che guarda un po’ è anche suo amante. Callie scatena la squadra investigativa, dicendo: Voi sapete che io non posso soffrire Terry, ma ora dobbiamo liberare il suo vicino di casa a cui tiene tanto, tu Rick che sai essere un amico vai a consolarla, tu Elton che sei senza paura vieni con me e andiamo a trovare i rapitori, basta che non mi mettiate accanto Terry che piagnucola che non la sopporterei. Seguono scene di inaudita violenza, il vicino muore cadendo dall’elicottero nel tentativo di calarsi con una cima per fuggire dai cattivi e Callie infine dice a Terry che le spiace ma comunque la moglie del vicino l’avrebbe ucciso lo stesso, e non senza ragione, perché tutti sanno che erano amanti e non si fa.
In sostanza, personaggi che nella vita reale sarebbero minimamente alfabetizzati, che si presentano nella fiction con una vita morale quantomeno fragile, parlano poi con la preparazione e la chiarezza di uno psicologo che è anche un amico sincero. È come se le parole dette quando ci si guarda negli occhi o quando si devono prendere decisioni fungessero da didascalie: ora qui si vede una persona gelosa che non si fa influenzare da tale sentire, fa quello che deve fare e rimprovera all’oggetto della gelosia – sua collega – un comportamento poco adeguato. Sottinteso: imparate, così si fa.
Quando nessuno sapeva leggere, gli affreschi e i mosaici erano accompagnati dai tituli, brevi scritte in cui si precisava chi era rappresentato e spesso anche in quale circostanza. Ma come, non sapevano leggere e si aggiungevano dei testi? Certo, perché in uno stato di ignoranza non si sanno leggere nemmeno le immagini, quindi era utile che quell’uno su mille che sapeva interpretare i segni alfabetici indicasse i nomi e gli atti dei personaggi rappresentati e magari ne approfittasse per esortare a seguirne l’esempio. Oggi noi sappiamo leggere, ma forse ci manca ancora la capacità di interpretare ciò che vediamo sullo schermo. Però, piuttosto che farci guidare dalle improbabili didascalie degli sceneggiatori, non sarebbe meglio capire come diventare alfabetizzati anche sulle immagini tv?