Prove d'orchestra

/ 27.01.2020
di Bruno Gambarotta

Fffortissimo è un libro che solo Alberto Sinigaglia era in grado di scrivere, grazie alla sua famigliarità con i grandi direttori d’orchestra. Leggerlo ha voluto dire per me tornare indietro nel tempo, ricordando gli anni, dal ’62 al ’65, trascorsi all’Auditorium di Torino, in compagnia dell’orchestra e del coro della Rai, in qualità di cameraman addetto alle riprese televisive. Chiesi subito di essere assegnato all’Auditorium.

Come ultimo arrivato nella squadra ero addetto alla telecamera meno impegnativa. Issato su un trabattello al fondo del palcoscenico, a sinistra per chi siede in platea, dovevo inquadrare il direttore il quale, dando con il suo gesto il segnale di attacco a una sezione dell’orchestra (di volta in volta violini primi o secondi, violoncelli, contrabbassi, trombe, corni, ecc.) indicava al regista nel pullman di ripresa l’esatto momento in cui «staccare» sugli esecutori. Succedeva talvolta, anche se per fortuna di rado, che l’inquadratura mandata in onda centrasse una sezione non intenta a suonare. Se l’infortunio capitava sulle trombe era un guaio ancora più grosso perché si vedevano gli esecutori che, rovesciato lo strumento, ne facevano colare a terra la saliva accumulata soffiandoci dentro.

Restavo in auditorium anche a telecamere spente perché le prove dell’orchestra sono più istruttive e coinvolgenti dell’esecuzione con il pubblico. Seduto in platea al buio, assistevo non visto al dialogo o al confronto fra direttore e orchestra. Prima scoperta: l’orchestra è un corpo unico, compatto, un soggetto ben diverso dai singoli strumentisti.

Quanto al direttore, non è sufficiente che sia un profondo conoscitore dello spartito dell’opera che deve eseguire, ma deve dimostrare anche il carattere di un leader, di più, di un vero e proprio despota. Saliva sul podio un direttore di fama consolidata ma al suo debutto con quell’orchestra. Al primo turno di prove, gli orchestrali si comportavano in modo da sperimentare fino a che punto potevano spingere la loro autonomia.

Se il direttore si mostrava accomodante e collaborativo con le loro richieste era finita, gli mangiavano in testa. Ogni tentativo di innovare qualcosa, dal modo di eseguire l’assolo di un singolo strumento, allo spostamento di una sessione sul palcoscenico, le reazione era sempre «si è sempre fatto così». Le differenze nel comportamento dell’orchestra erano abissali. Le prove terminavano alle 17 e 30 in punto. Con il direttore «democratico» alle 17 e 30 in punto a un cenno del rappresentante sindacale l’orchestra smetteva di suonare, gli archi non terminavano nemmeno la frase iniziata.

Con Sergiu Celibidache, magnetico despota dal gesto imperioso, nessuno osava fargli notare che l’ora della fine era arrivata e si andava avanti fino alle 20. Fra i tanti direttori che ho visto in azione il mio preferito era Gianandrea Gavazzeni che palesava una vocazione da didatta, non si limitava a chiedere una diversa interpretazione di un determinato passaggio, ma ne spiegava i motivi. Ogni volta era una piccola e preziosa lezione di musicologia.

In quegli anni alla Rai i sindacati spadroneggiavano perché i direttori, di nomina partitica, non osavano arginarli. Un esempio: il direttore non poteva chiedere a un singolo esecutore di ripetere un passaggio. Se il suo orecchio aveva avvertito un’imperfezione, cosa che capita soprattutto nei fiati quando il suono emesso non si può correggere, il brano poteva essere sì ripetuto ma da tutti i componenti della sessione. Gli autori contemporanei sovente danno molto rilievo alle percussioni. Non ricordo il nome dell’autore di un brano nel quale agivano ben quattro grandi timpani.

La regista della ripresa televisiva, per bilanciare l’inquadratura, aveva fatto collocare un gradino sotto i timpani la sezione dei flauti anche loro in quattro. Al termine di una prima prova i flautisti protestano, i colpi di tamburo impediscono loro di ascoltare il suono in uscita dallo strumento e andare in sintonia. La regista, rassegnata, sta per spostarli quando il primo flauto fa una proposta: se ci date un compenso extra di 50 mila lire restiamo. E così fu.

Non dimenticherò mai il mio primo giorno di lavoro all’auditorium. L’orchestra provava un lavoro di Igor Stravinskij, la Sinfonia di Salmi, per coro e orchestra. Nella prima pausa scendo nell’atrio dell’ingresso artisti, dove c’è la macchina del caffè. Sto armeggiando per averne uno quando due pinze d’acciaio artigliano le mie sacre natiche. Mi volto e scopro che le pinze sono le mani di un soprano che si profonde in scuse: «Perdonami, ti ho scambiato per un collega, un tenore che sta dietro di me e mentre cantiamo ne approfitta per toccarmi il sedere». Quando la musica ispira pensieri sublimi.

A proposito di questo autore, resta memorabile l’affermazione di un allievo del Conservatorio: «La musica moderna è nata a Parigi il 25 giugno 1910 quando Stravinskij diresse il suo Uccello di fuori».