Diversi anni fa, durante un incontro alla Biblioteca di Lugano, mi sono trovata accanto a Giorgio Orelli. Aveva, da poco, compiuto 90 anni, in piena forma. Mi venne spontaneo congratularmi, del resto sinceramente perché l’ammiravo, come poeta e come persona. Lui, spazzando via la retorica della vecchiaia invidiabile, rispose: «Provare per credere». Insomma, se non ci sei dentro, non puoi capire. Ora, per circostanze del tutto imprevedibili, quella battuta ritrova una nuova attualità, non più come esperienza individuale, ma collettiva. L’anziano, per usare una definizione più morbida, ne è diventato un protagonista, ma in termini ben diversi, da quelli cui si era abituati negli ultimi decenni, quando la terza età rappresentò una stagione, a suo modo felice, sia per il diretto interessato sia per la società e l’economia. Dopo le fatiche del lavoro, si apriva, grazie non di rado al pensionamento anticipato, una quotidianità a proprio uso e consumo: non quiescenza bensì tempo libero. Da riempire, approfittando delle offerte di un turismo ad hoc, di un mercato del benessere, con palestre, diete, cosmetici, interventi chirurgici. Cioè una panoplia di rimedi «antiage», con cui inventarsi una sorta di gioventù illimitata.
Parlo, e mi scuso, in prima persona, perché la mia generazione ha vissuto quell’illusione, contribuendo al fenomeno di una longevità che, d’altro canto, doveva gravare sull’apparato pensionistico e sanitario. Però ha funzionato, sino all’altro ieri.Ecco che, sotto l’urto di un’emergenza impellente, la figura dell’anziano cambia connotati passando da protagonista attivo a passivo. Sulla scorta di constatazioni mediche e statistiche ufficiali, le persone al di sopra dei 65 sono verosimilmente più esposte ai rischi legati all’infezione. Da qui una barriera protettiva, certo necessaria, che ne fa una categoria specifica, da isolare in un compartimento stagno, per il bene suo e altrui. Certo, le regole precauzionali, limitare le uscite, evitare gli assembramenti, lavarsi le mani, controllare starnuti e tosse valgono per l’intera popolazione. Nei confronti degli anziani, però, comportano effetti psicologicamente insidiosi. Provare per credere, appunto. Prende corpo, in quest’esilio domestico, la consapevolezza della propria fragilità, promossa a pericolo pubblico. Scatta, per lui, un campanello d’allarme, cui è gioco forza arrendersi.
Per quanto mi concerne, è risuonato due settimane fa, l’ultima volta che sono scesa in centro città. All’edicola, dove compio il rito acquisto quotidiani, la venditrice osserva: «Troppa gente in giro, i vecchi farebbero meglio a starsene a casa». Incasso il colpo. Da allora mi sono rintanata, concedendomi brevi uscite nelle strade della privilegiata e verde periferia, dove abito. Intanto, la lettura dei giornali, più che mai compagni di vita, mi sta confermando quanto sia complessa e delicata l’operazione «vecchi a casa». Si sta prestando a interpretazioni ad ampio raggio. Gaffe comprese. A cominciare da quella di Boris Johnson che dà per scontato «il sacrificio dei più deboli». Commentandola sul «Foglio», Giuliano Ferrara denuncia un proposito addirittura darwiniano, teorico dell’evoluzione e selezione. Detto cinicamente, il virus contribuirebbe a una «grande scrematura»: via i vecchi per far posto ai giovani.
Al di là di questa provocazione, altri opinionisti scelgono toni più pacati non però, al riparo da un certo paternalismo. Come nel caso di Ferruccio de Bortoli che, sul «Corriere della Sera», ringrazia «i nostri cari anziani». Confesso la mia allergia per quel «caro», con cui ormai da anni vengo apostrofata. Sottolineando, appunto, l’appartenenza a una categoria specifica, con la quale devo ragionevolmente fare i conti. Mentre, sempre in tema di reazioni mediatiche, apprezzo l’impegno di Fabio Pontiggia che, sul «Corriere del Ticino», commenta, ogni giorno, con sobrietà, una situazione che a molti fa perdere la testa. Esempio sconcertante, il «The Guardian», giornale progressista londinese, che, attingendo a fonti segrete, afferma che l’epidemia durerà oltre un anno e colpirà l’80% degli inglesi, e non solo loro.
Catastrofismi e complottismi a parte, la pausa virus invita, innanzitutto gli anziani, in prima fila loro malgrado, ad accettare la precarietà di un’esistenza ormai al termine. E, in pari tempo, aiuta a rivedere pregiudizi nei confronti di quelli che si consideravano vizi delle giovani generazioni. Alludo all’uso dei mezzi informatici, social compresi, che si stanno rivelando compagni preziosi, gli unici che ci consentono di lavorare e comunicare. Un vantaggio non da poco: utile, consolatorio.