«Oggi il proibito non esiste più», scrive Masolino d’Amico recensendo l’esordio teatrale di un giovane «stand-up comedian» che prende a modello il mitico Lenny Bruce. Si percepisce una sfumatura di rammarico in questa affermazione. È il caso di rimpiangere la censura? Non è un’aspirazione paradossale, dopo tante battaglie a sostegno della libertà d’espressione e alla presenza di tanti paesi che la reprimono sanguinosamente?
Da noi l’unico limite resta il codice penale che prevede tra gli altri il reato di diffamazione, ma le persone prese di mira esitano a fare denuncia per evitare di fornire risonanza mediatica alla presunta ingiuria. Così, coloro che praticano le varie forme della comicità aggressiva sono sollecitati ad alzare ogni volta il livello di oltranza. Le manifestazioni della satira senza limiti di censura richiamano alla mente una sequenza che ricorre sovente nei film comici: un agente di polizia si trova di fronte una porta sbarrata; bussa, nessuno gli apre, prova a forzare la maniglia senza risultato; prende inutilmente la porta a spallate e infine si allontana di qualche metro, prende una rincorsa per gettare tutto il peso del suo corpo contro l’uscio quando chi sta dall’altra parte lo apre e il poliziotto, oramai lanciato, va a spiaccicarsi correndo contro una parete al fondo della stanza.
La censura ha due grandi meriti; affina la mente degli autori costringendoli a escogitare trucchi per aggirare i divieti e consente a chi l’osserva in azione di considerarsi intellettualmente superiore ai censori. In un dizionario dei luoghi comuni si potrebbe illustrare il lemma «censura» con la seguente definizione: «deve essere sempre accompagnata dall’aggettivo ottusa». Per decenni il complesso di superiorità degli italiani è stato alimentato dal racconto degli interventi censori della dirigenza Rai riguardo al contenuto dei programmi. Un accuratissimo censimento di questo genere di censura si trova in un volume pubblicato da Garzanti nel 2003, intitolato Proibitissimo!. L’autore è Menico Caroli, grecista al dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’università di Bari e storico della censura radio televisiva per suo divertimento.
Un esempio fra i tanti: nel 1958 si registra per la radio l’Otello di Shakespeare nella celebre interpretazione di Vittorio Gassman (Otello) e di Salvo Randone (Jago). Nei piani alti qualcuno scopre che Otello, accecato dalla gelosia, apostrofa Desdemona in varie occasioni chiamandola «puttana» per ben 14 volte. Un giovane funzionario, l’ultimo della scala gerarchica, viene spedito nello studio di via Asiago con una ragionevole proposta: «Al posto di puttana perché non la chiamiamo farfallona?».
L’aspetto più esilarante della censura praticata dalla Rai, quando operava in regime di monopolio, riguarda il divieto di usare certi termini in una stagione, durata molti anni, nella quale tutto quello che veniva detto ai microfoni doveva figurare su un testo scritto e sottoposto preventivamente al vaglio dei responsabili. Qualche esempio: l’omosessualità era «il turpe vizio»; lo sciopero «astensione dal lavoro»; l’osteria «il locale ricreativo attiguo alla fabbrica». Si tollerava la parola «cancro» solo all’interno dell’oroscopo, altrimenti era «un male incurabile». Neanche l’olio d’oliva poteva dirsi «vergine» ma solo «puro». Un artista non poteva avere «estro», un termine che evoca la femmina di una specie animale in calore. Nella pubblicità di un lassativo non si poteva usare la parola «intestino», ma solo affermare che «regola l’organismo» e pazienza per l’utente che non ne comprende il significato. Un campo minato per la dirigenza Rai erano le canzoni che sovente nascondevano nei testi messaggi incendiari. Bisognava intervenire prima della messa in onda. Gianni Morandi cantando «C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones» citava le parole «Vietnam e Vietcong». Proposta, più che ragionevole: «sostituiamole con “Corfù e Cefalù”. L’autore Franco Migliacci opta per un “ta...ta...ta...ta” che sarà un fattore non secondario del successo della canzone.
Nonostante tutto, non è il caso di provare nostalgia per la censura. Per mettere un argine contro questa tentazione è sufficiente leggere le veline emanate dal Minculpop per orientare l’informazione durante il regime fascista. Le troviamo in un libro di Nicola Tranfaglia, La stampa del regime, 1932-1943 edito da Bompiani. Persino gli eccessi di zelo sono repressi; così sono vietate affermazione del genere «Il Duce non si tocca»: «tali manifestazioni possono essere interpretate all’estero come un sintomo che vi sia qualcuno in Italia che discuta o pensi di toccare il Duce». Il capo del governo deve essere rappresentato come un uomo solo al comando: «si rinnova la disposizione di non abbinare il nome del Duce, negli applausi e nelle ovazioni, a quello di altri ministri». Una reprimenda tocca al «Giornale di Sicilia» perché si è occupato, nell’anno XI dell’Era Fascista, della presa della Bastiglia, argomento ormai sorpassato.
Anche qui però c’è qualcosa da imparare. Una velina del 23 giugno 1932 ordina ai periodici italiani: «Non si devono più fare recensioni per libri riguardanti gerarchi o scritti da gerarchi». Se applicassimo questa norma, sostituendo alla parola «gerarchi» la parola «giornalisti», svuoteremo di colpo dai nostri quotidiani le pagine dedicate alla cultura.