Cara Silvia,
le scrivo per una questione che non mi riguarda ma che non mi lascia indifferente, tanto che continuo a pensarci. Lavoro da alcuni anni, unica donna, in uno Studio di grafica, con vari colleghi e c’è tra noi molto affiatamento. Spesso la sera usciamo insieme e ci confidiamo liberamente i nostri problemi. Nonostante inevitabili diversità, ci troviamo d’accordo politicamente e culturalmente su quasi tutto.
Ci consideriamo aperti, liberali e progressisti, convinti difensori della natura e dell’ambiente.
Tra questi colleghi-amici c’è una coppia di gay particolarmente simpatici: sempre disponibili a dare una mano, allegri, ironici, anche verso se stessi. Ultimamente però si sono messi in mente di diventare genitori. Come? Rivolgendosi a un’agenzia internazionale che offre, a pagamento, contratti per una gravidanza per conto terzi. Nella nostra compagnia tutti l’hanno presa bene, come fosse un’idea originale e divertente. Solo io, forse perché donna, mi pongo molte domande ma non so con chi confidarmi e, temendo di passare per una persona poco emancipata, magari un po’ bigotta chiedo a lei un parere spassionato.
La ringrazio se vorrà aiutarmi ad affrontare una questione così spinosa. / Barbara
Cara Barbara,
ha ragione, la questione non è da poco e ci trova tutti impreparati. Cinquant’anni fa, è accaduto un avvenimento epocale: con la nascita di Louise Brown, la prima bambina in «provetta», il concepimento si è separato dalla gestazione ed è possibile avere un figlio senza rapporto sessuale. Successivamente, nel caso di coppie dello stesso sesso, è diventato possibile diventare genitori retribuendo una donna nella maggior parte dei casi povera ed emarginata, disposta a essere fecondata con seme altrui, a portare a termine una gravidanza tecnicamente indotta e a consegnare infine il nuovo nato ai committenti. Sempre più frequentemente poi, per evitare rivendicazioni di proprietà, quando gli aspiranti genitori sono entrambi maschi, complicano ulteriormente il processo di generazione inserendo l’ovulo di una donna diversa da quella che sarà poi fecondata.
È evidente che approfittare di persone in stato di bisogno, considerarle semplici contenitori di materiale genetico, indurre la partoriente ad abbandonare quello che è stato per nove mesi un figlio, costituisce un’azione profondamente immorale. Nessuno ha diritto di considerare una persona come un mezzo e non come un fine.
Dal punto di vista del bambino poi, mi chiedo quali conseguenze potrà avere a lungo termine sapere di essere stato acquistato come una merce. Mi sembra arbitrario sostituire con gelidi contratti finanziari, la relazione sessuale più intima e segreta, quella che porta alla procreazione di un figlio. Gli aspiranti genitori parlano di diritti ma, nei confronti dei bambini, conosco doveri più che diritti. Il desiderio, così frequente negli adottati, di conoscere i genitori biologici quali conseguenze avrà? Siamo sicuri che sia indifferente ignorare da dove e da chi si viene? Mentre l’adozione cerca di porre rimedio a un danno già avvenuto, il ricorso all’«utero a nolo» il danno lo produce.
Le Legge condanna duramente la compravendita di bambini, perché dovrebbe accettarla in questi casi? Per i «nati per procura» non sarà duro apprendere che, per appagare il desiderio di trasmettere almeno in parte il proprio patrimonio genetico , quelli che considerano genitori li hanno privati intenzionalmente della mamma che li ha accolti e nutriti per nove mesi?
In una società fluida, dove è sempre più difficile costruire profili d’identità, come sarà possibile per loro raccontarsi una biografia dotata di senso e di significato? Davvero non è più essenziale, per la condizione umana, sapere da dove si viene per decidere dove si va? Come vede, cara Barbara, questi sono soltanto alcuni dei quesiti suscitati da biotecnologie che procedono senza confrontarsi con le conseguenze dei loro interventi per cui non abbia paura di essere considerata antiquata. La modernità non è sempre una garanzia di moralità e di giustizia.