S’intitolava così il film, diretto da Luigi Zampa nel 1952, in piena era neorealista, quando il cinema italiano diventò anche uno strumento di denuncia politica e sociale. La città in questione era Napoli nella morsa della camorra, allora come oggi. Tanto che quel titolo azzeccato conserva un’inesauribile attualità e definisce un fenomeno che continua a manifestarsi a tutte le latitudini. Luoghi per tradizione tranquilli, sicuri, accoglienti si trovano, a loro volta, sotto processo. È il caso, negli ultimi anni, di Lugano, diventata il bersaglio di critiche, anzi accuse sempre più insistenti e allarmanti. Altro che regina del Ceresio, incoronata da montagne e colline, ridenti, come si diceva un tempo, e bagnata da un lago, cosiddetto ameno. Adesso, le spettano ben altri attributi. Quelli di una località in declino, priva di nuove risorse, assediata da un traffico incontrollabile, avvilita dalla noia e addirittura invasa dalla sporcizia.
È una visione rovesciata, rispetto alla precedente: dall’idillio al disamore, sul filo del rimpianto. Questo voltafaccia fa tendenza e, del resto, rispecchia lo spirito «anti-sistema», tipico del momento. Ciò che viene dall’alto insospettisce. Da qui il crescente divario fra statistiche ufficiali e convinzioni popolari: mentre Lugano, dati alla mano, è la città svizzera più sicura della Confederazione, i suoi abitanti si sentono esposti a pericoli minimizzati dalle autorità, furti, vandalismi, brutti incontri. Alla stessa stregua si diffida delle cifre sulla disoccupazione, diffuse dalla SECO, ispirate a un ottimismo di facciata, fake news, come quelle concernenti il turismo, il commercio, la ristorazione. Proprio qui il contrasto di opinioni diventa abissale. Con buona pace delle statistiche, la maggioranza dei luganesi non registra segni di vitalità, bensì l’opposto: niente visitatori, negozi senza clienti, vie dello shopping deserte, bar chiusi, sale di spettacolo non attraenti.
Questo diffuso pessimismo, però, non è soltanto un prodotto dell’epoca che della protesta ha fatto un obbligo civico o una moda. Rappresenta invece una costante, di cui, per via dell’età, sono diretta testimone, da decenni: si tratta di una forma di prudenza nei confronti del futuro, che può riservare cattive sorprese. Meglio cautelarsi, prevedendo il peggio. Ecco, allora, per citare un caso ricorrente, albergatori e ristoratori che, soltanto l’anno dopo, parlano di una stagione che era stata soddisfacente. Come avviene, del resto, per i conti dello Stato, presentati agitando lo spettro di cifre rosse, in seguito smentite. È, insomma, un aspetto evidente del costume locale, qualcosa che appartiene al nostro DNA e alimenta i malumori quotidiani.
Ma al di là di questa tradizione ticinese e luganese, in particolare, si assiste oggi a un fenomeno che ha assunto dimensioni e connotati ben più ampi, persino sconcertanti. La città, in veste d’imputata, si trova sottoposta al processo intentato da riformatori, animati dallo zelo salvifico che concerne «un organismo moribondo». Si legge questa definizione nel primo volume della trilogia Meno Trenta, pubblicato recentemente da Stefano Artioli, imprenditore di successo, impegnato in un’operazione morale, destinata a «muovere le coscienze di tutta la società civile». Per farlo, ricorre ai mezzi forti, attraverso immagini che documentano le conseguenze di trent’anni perduti. Compare, così, una Lugano in preda allo squallore, con periferie «oscene», dove imperversano i graffitari, dove si è concesso spazio a speculatori e a evasori fiscali, sottraendolo all’agricoltura e con «un verde urbano soltanto in funzione ornamentale». A scanso di equivoci, sono cose vere, purtroppo vizi dell’epoca, ma, in queste pagine sembrano la particolarità di una Lugano, in caduta libera.
Artioli, comunque, non è solo in quest’operazione di risanamento e, soprattutto di cambiamento. Un apprezzato linguista, Alessio Petralli si è fatto avanti con una proposta inattesa: convertire il lungolago in spiaggia balneare. Suscitando reazioni di segno opposto. Da un lato, conservatori fedeli alla fisionomia del «quai belle époque». Dall’altro, gli innovativi, affascinati da una Lugano «marittima», cui anche i politici strizzano l’occhio.