«Rispettate il morto, sotterratelo, non eleggetelo»: non è raro scorgere una vena di ironia fra i cartelloni ostentati durante le proteste in Algeria contro il presidente-fantasma Abdelaziz Bouteflika (in pubblico non lo si vede da quando ebbe un ictus nel 2013) – almeno quella, il regime del presidente che comanda il paese maghrebino da 20 anni col pugno di ferro non ha potuto sottrarla. Per il resto, agli algerini è rimasto ben poco, soffocati da un potere concentrato in poche mani.
Un potere oscuro, composto dai famigliari dell’82.enne presidente, in particolare il fratello Saïd, dai militari che hanno nel capo di stato maggiore Ahmed Gail Salah il più stretto alleato dei Bouteflika (che hanno moltiplicato per 5 le spese militari in pochi anni), dalle cerchie imprenditoriali che si sono arricchite con le commesse pubbliche, incarnate da Ali Haddad, proprietario di una grossa impresa edile, di diversi media e della squadra di calcio USMA Alger. Il parlamento è considerato un assembramento di marionette, i servizi segreti l’ombra di se stessi dopo la cacciata del potentissimo generale Toufik, il governo assoggettato al presidente, lo stesso presidente una marionetta in mano ad altri. Gli algerini definiscono chi comanda semplicemente con l’appellativo «le pouvoir».
Ora però questo «pouvoir» potrebbe avere i giorni contati: le proteste cominciate il 22 febbraio contro un quinto mandato presidenziale di Bouteflika sono cresciute di intensità e culminate l’8 di marzo con oltre un milione di persone per le strade di Algeri e decine di migliaia in tutte le altre grandi città, quindi in uno sciopero generale il 10 marzo. Proteste essenzialmente pacifiche, laiche, cui partecipano tutti i segmenti della società. I generali non riescono più a tener calma la popolazione evocando il rischio di un sanguinoso caos se cadesse il regime di Bouteflika: non fa più paura il ricordo delle primavere arabe di 8 anni fa, abortite perlopiù nel sangue (eccetto nella vicina Tunisia) e ancora meno il ricordo del decennio del terrore, quando l’Algeria sprofondò in una guerra civile costata 200mila vite, dopo che il Fronte di liberazione nazionale (al potere dall’indipendenza del 1962) non aveva riconosciuto la vittoria alle elezioni del 1991 del Fronte islamico di salvezza (moltissimi sono troppo giovani per ricordarsene). Adesso è il regime ad avere paura.
E così, l’11 marzo ha fatto le prime concessioni: Bouteflika (o chi per esso) ha comunicato che rinuncerà ad un quinto mandato presidenziale, che le elezioni del 18 aprile vengono rinviate, che una conferenza nazionale, composta da esponenti di tutta la società algerina, dovrà elaborare una nuova costituzione entro la fine dell’anno, dopodiché verrebbero indette nuove elezioni presidenziali. Ma quella che da una parte è una prima vittoria della piazza, viene vista anche come un trucco per restare al potere: «volevamo elezioni senza Bouteflika, ci danno Bouteflika senza elezioni», è il commento. Infatti, contrariamente a quanto prevede la costituzione, Bouteflika allungherebbe così a tempo indeterminato il suo quarto mandato.
Di conseguenza, le proteste continueranno. C’è da sperare che l’esercito non ricorra alle armi per fermare le proteste: sarebbe l’inizio di una nuova guerra civile. Ma anche se le proteste dovessero mantenersi pacifiche, l’interrogativo di fondo resta: chi potrà prendere il posto dell’attuale «pouvoir»? I partiti d’opposizione sono troppo deboli, non emergono ancora figure e forze strutturate che abbiano la credibilità e la capacità di governare un paese di 42 milioni di abitanti. È l’eterno problema delle autocrazie arabe: i Gheddafi, i Mubarak, i Ben Ali, gli Assad quando se ne vanno lasciano il vuoto dei cimiteri.