Trovo piuttosto strano che le cocciute scelte di Donald Trump non abbiano suggerito ai media di porre a confronto l’attuale momento della politica Usa con quello pressoché analogo di venti anni fa. Infatti nel 2000 anche Al Gore, allora candidato democratico alle presidenziali dopo otto anni di vicepresidenza con Bill Clinton, prolungò il «dopo elezioni» per oltre un mese, fino alla vigilia della riunione dei grandi elettori che avrebbero sancito la vittoria del repubblicano George W. Bush. Proprio come Trump, anche lui chiedeva il riconteggio dei voti della Florida, uno Stato il cui numero di grandi elettori avrebbe potuto determinare la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. Nonostante uno strettissimo margine di voti (circa 500) e malgrado il governatore della Florida oppostosi al riconteggio fosse Jeb Bush, fratello del candidato repubblicano, la richiesta venne respinta dalla Corte Suprema. Credo che questo precedente sia una sorta di cartina di tornasole per interpretare il lungo tergiversare di un Trump che ha continuato a negare la vittoria di Joe Biden chiedendo assurdi riconteggi in molti Stati. A spingerlo, più che la convinzione politica o concrete prove di brogli, c’era unicamente la sua testardaggine nello sfruttare sino all’ultimo un velo di incertezza che gli potesse in qualche modo consentire di vincere come Bush nel 2000. Alla fine ha dovuto rassegnarsi all’evidenza di non poter più sostenere la sua assurda strategia di fronte a un Biden con il maggior numero di voti e ad azioni legali che continuavano a mostrare a lui e a suoi irriducibili sostenitori l’evidenza della sconfitta.
Per descrivere e cercare di capire la prolungata e surreale caponaggine di Trump vale la pena di segnalare anche un’altra vicenda, meno remota nel tempo. Su Youtube è facilmente reperibile un video che ripropone uno spezzone di un talk-show andato in onda negli Stati Uniti la sera del 23 ottobre scorso, quindi dieci giorni prima delle elezioni presidenziali. Ospite del conduttore Jimmy Fallon quella sera c’era il senatore Bernie Sanders, noto per essere stato tra gli aspiranti democratici agli inizi della campagna presidenziale e per essersi poi defilato, posto in minoranza dalla sua etichetta di candidato «troppo di sinistra». Nel video Sanders, interrogato sulle elezioni presidenziali, descrive come avrebbe potuto andare, secondo lui, la notte elettorale: «Potrebbe inoltre accadere che alle 10 di sera Trump starà vincendo in Michigan, in Pennsylvania, in Wisconsin e andrà in televisione per dire “Grazie americani per avermi rieletto, è tutto finito, buona giornata”. Ma poi il giorno successivo e quello dopo ancora, tutti questi voti via posta inizieranno a essere contati e si scoprirà che Biden ha vinto in quegli Stati e a quel punto Trump dirà “Ecco? Vi ho detto che c’erano delle frodi. Vi avevo detto che i voti via posta sono truccati. Quindi ora non ce ne andremo”». Una visione incredibilmente profetica, poiché descrive quello che è poi effettivamente successo il 3 novembre e i vaneggiamenti di Trump dei giorni successivi, sino alla resa suggerita dai più intimi sostenitori.
Conservo la fotocopia della pagina del «New York Times» con il bellissimo discorso di commiato in cui Al Gore invitava i suoi sostenitori ad accantonare «il rancore di parte» e ad avviare «il processo di conciliazione» per il bene del paese. Dopo essersi congratulato con il presidente eletto Bush, attorniato dai familiari e dal suo vice designato Joe Lieberman, accettando ufficialmente la sconfitta Gore aveva dichiarato: «Non ci devono essere dubbi: pur restando in forte disaccordo con la decisione accetto la irrevocabilità del risultato (…) Dobbiamo essere uniti dietro al nostro nuovo presidente (…) Gli ho offerto di incontrarci prima possibile in modo da cominciare a sanare le divisioni della campagna e dello scontro successivo» aveva concluso lo sconfitto, applaudito da repubblicani e democratici. Nei giorni successi Gore non volle più commentare i trentasei giorni di incertezze e di battaglie legali, che il popolo statunitense è stato costretto a rivivere vent’anni dopo. Impossibile sapere oggi come il presidente uscente vorrà accomiatarsi nelle prossime settimane. Rimane solo la certezza che gli Stati Uniti devono uscire da una profonda crisi che Trump ha pensato di poter ostacolare solo con la sua goffa testardaggine, mostrando i muscoli e solo raramente indicando vere soluzioni, soprattutto per i problemi interni. Biden ha davanti a sé un paese condizionato dalle lacerazioni causate dal crescente razzismo, dalle rivendicazioni di tante minoranze e dal dramma ancora in atto del Coronavirus, combattuto solo a livello di ricerca scientifica. Non è però difficile prevedere che per guarire i mali degli Stati Uniti la nuova amministrazione dovrà avviare prima un «processo di riconciliazione» e cercare di cancellare i rancori generati dal populismo di Trump.