Quando una persona apprezzata ed amata ci lascia, molto spesso le manifestazioni di affetto e di cordoglio si intrecciano con un gran parlare di sé stessi. Anziché limitarsi a ricordare le qualità della persona, ci si ritrova spesso a raccontare di sé, a evocare momenti della propria vita: di quel giorno in cui abbiamo bevuto un caffè insieme e gli ho raccontato che…; di quell’occasione in cui mi ha salutato cordialmente mentre stavo facendo quella cosa lì…; di quando le ho parlato di quel mio bel progetto…
Raramente il ricordo è solo un ricordo delle qualità di un Lui o di una Lei, raramente sappiamo parlare di Loro semplicemente nel loro esserci stati, della loro presenza tra noi e di quello che hanno fatto. Viene sempre molto più facile parlarne dentro un racconto, spesso dettagliato, di noi stessi. Il fenomeno è ben visibile nei social ma questo non deve farci credere che sia solo una questione di esibizione, di un bisogno di partecipare in prima persona allo spettacolo della vita.
Rispetto all’attuale spirito del tempo che incoraggia a mettere in scena la propria vita, rispetto al bisogno di raccontarla e di esibirla per poter esistere, questi comportamenti hanno radici ben più profonde. L’approccio autoreferenziale con cui oggi entriamo in relazione con l’Altro può essere infatti considerato solo un’ultima deriva di un’antica abitudine della ragione. L’ultima spiaggia di un modo di ragionare che viene da molto lontano e che da sempre impedisce di nominare ciò che è diverso semplicemente nella sua differenza, nella sua alterità. È la nostra razionalità che funziona così. Se ad esempio osserviamo un colore nuovo, mai visto prima, per poterlo definire saremo costretti a confrontarlo con un altro colore, un po’ simile ma anche un po’ diverso. Da questa esigenza della ragione nel nominare e nel comprendere le cose, al modo in cui cerchiamo di conoscere le persone che incontriamo, il passo è breve. Anche quando desideriamo comprendere l’Altro, da sempre ragioniamo distinguendo, confrontando, misurando. E come accade per il colore, ritenuto più o meno bello di quelli già conosciuti, alla fine anche la conoscenza dell’Altro porterà con sé un giudizio di valore. Incapaci di nominarlo come altro e basta, lo mettiamo sempre in relazione con qualcosa di già conosciuto e questo «già conosciuto» diventa spesso il modello, il punto di riferimento in base a cui, non solo comprendere, ma anche giudicare ciò che è diverso.
Si tratta di un comportamento della ragione ben visibile fin dalle radici della nostra cultura quando, ad esempio, lo scienziato Aristotele descrive rigorosamente le differenze tra femmina e maschio nelle diverse specie animali, comprese quelle tra uomini e donne. Il confronto e la misura diventano poi giudizio di valore. Si distinguono le qualità fisiche dal più al meno (più o meno peli, più o meno forza, piedi più o meno grandi…) e da questo confronto la donna risulta mancante rispetto all’uomo, ovvero rispetto al modello ideale di riferimento.
Siamo ancora lì, quando guardiamo il mondo e le persone che lo abitano con il nostro sguardo sulla vita, con i nostri valori come punto di riferimento. Siamo ancora lì, quando per conoscere ciò che ci circonda restiamo prigionieri del nostro sguardo. Da qui derivano certamente anche gli attuali comportamenti autoreferenziali che, come detto, ci invitano a parlare sempre di noi, in ogni racconto della vita. Ma c’è dell’altro ancora. Come già quello di Aristotele nei confronti della donna, il nostro sguardo contiene spesso anche effetti ideologici non trascurabili. Per questo rischiamo di essere ancora lì, quando parliamo dello straniero, del migrante, in generale di chi è diverso. Non so se una presa di coscienza etica, oggi più che mai necessaria, riuscirà a liberarci dalle prigioni del nostro sguardo sulla vita quando vede muri e alimenta esclusioni. A me pare di intravedere una speranza nei comportamenti dei più giovani. I nostri bisnonni dicevano «mogli e buoi dei paesi tuoi», qualcuno forse continua a crederci. Per i ragazzi di oggi questo sembra non aver più alcun senso. È facile che si innamorino di una ragazza cinese incontrata sotto casa, tutta protesa all’efficienza e alla competizione, e così magari capiscono che c’è dell’altro nella vita. Qualcosa d’altro, e di diverso, che possono riconoscere nello sguardo colorato di quell’amica con cui danzano la salsa, o di quell’amico che gli ha parato un goal. Mi piace pensare che l’etica possa offrire nuove fioriture proprio a partire dagli sguardi più liberi dei giovani.