Prezzi scontati per la parità

/ 14.03.2022
di Lina Bertola

Siamo a Ginevra. L’amica Lucie, che occupa una bella posizione in un ufficio dell’ONU, mi racconta di aver conosciuto un simpatico collega, impiegato nei servizi di manutenzione. Si ritrovano spesso alla buvette per un caffè, ma soprattutto per parlare di musica, grande passione di entrambi.

Lucie ha appena saputo che, in quanto donna, in futuro potrà partecipare a molti concerti con uno sconto del 20% sul prezzo del biglietto.

Si tratta infatti di una recente decisione del consiglio comunale ginevrino cui si è giunti allo scopo di compensare le disparità salariali delle donne. È una provocazione, è stato spiegato, per rendere visibili discriminazioni ritenute normali, di cui spesso non ci rendiamo conto. A tutte le donne residenti verrà dunque applicato uno sconto del 20% da parte delle strutture culturali e sportive della città. La mia amica è perplessa, e la capisco bene, infatti la «provocazione» sta suscitando un acceso dibattito.

Uno dei motivi delle perplessità è che questa decisione potrebbe generare ulteriori discriminazioni che vanno al di là di quelle di genere, discriminazioni che attraversano la nostra società in modo trasversale e che riguardano le categorie più fragili, con minor disponibilità finanziaria. Lucie si rende conto che lei risparmierà su un costo che, con il suo stipendio, potrebbe anche sostenere, mentre il suo amico melomane, con minore disponibilità, proprio perché maschio a prezzo pieno, probabilmente non potrà mai accompagnarla.

Viene da chiedersi se, nonostante le buone intenzioni, il desiderio di sopperire a un’ingiustizia, non stia di fatto promuovendone un’altra.

La decisione di sottolineare ciò che è ritenuto inaccettabile attraverso l’esibizione provocatoria del suo rovescio mostra come il denaro sia sempre più considerato il linguaggio simbolico universale; e mostra soprattutto come, proprio perché prigionieri del suo linguaggio, ciò possa anche provocare situazioni in qualche modo paradossali: tu mi togli e io prendo da un’altra parte, così capisci che mi hai tolto qualcosa.

Ma è davvero questo l’unico modo, o perlomeno il modo migliore per arrivare a comprendere quanto ingiusta sia la disparità salariale tra uomo e donna?

La rappresentazione del denaro come valore simbolico universale, il fatto di ritenerlo il linguaggio privilegiato per comprendere e per risolvere ogni relazione, ci fa credere che sì, che sia proprio questo il modo migliore, l’orizzonte più adeguato, anche per affrontare gli aspetti etici della nostra convivenza perché, non dimentichiamolo, la giustizia retributiva è una questione etica fondamentale. Esprime un valore, una qualità dell’esistenza e della convivenza.

Tutto ha un prezzo, si dice. «Tutto» è parola impegnativa e totalizzante, ed ecco che allora, quando si vuole dar valore a qualcosa, a volte si tenta di trascinarla fuori dal nostro immaginario colonizzato dai soldi, e si dice che quella cosa lì proprio non ha prezzo. Purtroppo spesso è solo un espediente pubblicitario, uno slogan usa e getta, che a me pare però suggerire qualcosa di interessante.

Non tanto, credo, che esistano davvero cose impagabili: sarebbe bello ma non è così. Perfino la salute, alla resa dei conti, appunto, la dobbiamo pagare, con tutte le discriminazioni che questo comporta, come si è visto durante la pandemia.

Direi che suggerisce piuttosto un’altra cosa importante, ovvero che l’apprezzamento economico è solo la punta dell’iceberg di scelte culturali che affondano le radici altrove, nel nostro modo di dar valore alla vita e alle sue espressioni. Nel valore, appunto, che prescinde dal prezzo che le verrà in seguito assegnato.

La differenza di genere pesca in profondità nei valori della nostra storia ed è su questi retaggi culturali che dobbiamo impegnarci ad agire, anche per risolvere i problemi economici.

Ad esempio, ripensando il valore della cura, di quel prendersi cura della vita in cui è stato imprigionato il vissuto della donna.

È necessario finalmente riconoscere che quel femminile della cura, del sentire, e dell’accoglienza dell’altro, quel femminile con cui è stata identificata la donna, con tutte le conseguenze discriminatorie anche nel mondo del lavoro, è in realtà espressione degli stati più profondi della nostra umanità che tutti, uomini e donne, dovremmo finalmente coltivare. Ciò cambierebbe il nostro sguardo sul valore del vivere e del convivere e sulle forme di relazione in cui esprimerlo.

Le scorciatoie economiche, come la provocazione del legislativo ginevrino, potrebbero alla fine rivelarsi un ostacolo a questa trasformazione culturale che ci interpella con urgenza.