Anno nuovo, presidenti nuovi. Memorizzare il nome delle più alte cariche, della Confederazione e dei Cantoni, non è per niente facile. Ogni volta c’è chi si scandalizza, puntando il dito contro la scuola, colpevole di trascurare l’«educazione civica». Ma insomma, è anche comprensibile, considerato che la presidenza cambia da un anno all’altro. E poi la costellazione politico-istituzionale del paese non aiuta. L’opinione pubblica inizia a conoscere i Consiglieri federali solo dopo l’elezione, allorché muovono i primi passi sotto le luci dei riflettori, non prima. Fino a quel momento il loro nome risulta familiare solo ai parlamentari che siedono a Berna, e forse ai giornalisti accreditati.
Nei paesi limitrofi, tutti conoscono i capi dello Stato, anche perché rimangono in carica a lungo (Macron per cinque anni, Mattarella per sette). Da noi si fa più fatica, bisogna superare le barriere linguistiche, informarsi, seguire la cronaca politica. Il presidente confederale di turno è solo un «primus inter pares», non esibisce le greche di un «président de la République» come in Francia. È anche possibile che il prescelto provi un senso di frustrazione, a fronte della breve durata del mandato e degli scarsi poteri che la Costituzione gli attribuisce. Ad ogni modo, scaduto il termine, si vede costretto a rientrare nei ranghi e a cedere il posto al subentrante. «Servir et disparaître», pareva poi essere la consegna alla quale doveva attenersi il politico che usciva di scena al termine del suo iter pubblico.
Tutto questo – come spiega Urs Altermatt nel suo ultimo saggio dedicato ai primordi del Consiglio federale – è maturato nel tempo, fra contrasti, prove di forza e compromessi. Sin dalla sua nascita nel 1848 il governo centrale si è autoconcepito come organo collegiale, sebbene i suoi membri appartenessero tutti alla «grande famiglia» liberale, e questo fino al 1891, anno in cui fece il suo ingresso il primo rappresentante cattolico, il lucernese Josef Zemp. Ma sarebbe sbagliato, argomenta Altermatt, considerare il «Freisinn» elvetico come una compagine omogenea e priva di tensioni interne. Le correnti e le rivalità erano numerose, espressioni di interessi divergenti, sia economici che regionali nelle loro articolazioni culturali, linguistiche, confessionali. I partiti erano scarsamente organizzati sul piano nazionale, e il liberale operante sulla piazza finanziaria di Zurigo ben poco sapeva del suo collega che proveniva dai cantoni di montagna. Ci si può chiedere infatti quali fili intercorressero tra un Alfred Escher, il barone delle ferrovie, e uno Stefano Franscini, un magistrato figlio di contadini «nato povero e morto povero».
L’autore del saggio – appena uscito nelle edizioni della NZZ e intitolato Da focolaio di disordini a Repubblica stabile. Il Consiglio federale dal 1848 al 1875 – ricorda la simpatia che ha sempre accompagnato la parabola del politico leventinese, il suo itinerario come precettore e cultore di indagini statistiche. Non altrettanto brillante fu invece la sua attività come consigliere federale: un po’ perché il dipartimento che dirigeva (gli Interni) era considerato marginale e un po’ perché le sue cagionevoli condizioni di salute e la sua progressiva sordità gli impedivano una piena integrazione nella squadra di governo. Risultato: a Berna Franscini fu un isolato, un solitario che alla dialettica politica, non priva di asprezze, preferiva la quiete dello studio. A conferma, Altermatt riporta un giudizio poco lusinghiero che la «Gazette de Lausanne» espresse all’indomani della scomparsa (1857): «Egli ha modestamente assolto le sue funzioni e la sua morte non avrà nessuna influenza sulla conduzione degli affari». Si sa che Franscini avrebbe volentieri dismesso i panni del politico per assumere quelli di professore di statistica nel neonato Politecnico di Zurigo. La sua domanda fu tuttavia respinta, aggravando il suo stato di salute fisico e psichico. Ben più incisiva, aggiunge Altermatt, fu l’azione di governo del suo successore, il locarnese Giovan Battista Pioda, sebbene anche lui, appena poté, preferì lasciare Berna per diventare ministro plenipotenziario svizzero nel Regno d’Italia, prima a Torino e poi a Firenze e Roma.
Ma torniamo alla presidenza, carica spesso declassata alla funzione di semplice rappresentanza. Il presidente di turno sarebbe solo un «Schattenkönig», un re-ombra, un sovrano-virtuale. La definizione non persuade, da un lato perché sottovaluta la valenza simbolica dell’investitura, dall’altro perché anche questa carica può imprimere un’accelerazione inattesa a processi mai veramente decollati. Lo si è visto con Flavio Cotti nel 1991 e nel 1998: in entrambi i casi, Cotti seppe scrollare un paese ch’era diventato abulico e percorso da impulsi autodistruttivi, specie dopo la bocciatura di CH 91 nei cantoni della Svizzera centrale. Cotti volle invece ridare all’anniversario la dovuta dignità, spalleggiato in questa sua operazione da Marco Solari e Mario Botta.
Presidente per un anno (ripetibile)
/ 18.01.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti