Pregiudizi vittime di pregiudizi

/ 20.02.2017
di Bruno Gambarotta

Il pregiudizio universale è l’indovinato titolo di un libro pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice Laterza. Il sottotitolo lo definisce «un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni». Gli autori coinvolti sono 87, tutti italiani meno uno, il compianto Zygmunt Bauman, impegnato a demolire il luogo comune che afferma: «Non c’è più religione». A lui dobbiamo la migliore definizione del bersaglio del libro: «Il pregiudizio è dogmatico; quelli che li abbracciano rifiutano l’argomentazione e chiudono le orecchie ai giudizi contrari al proprio per paura di dover ammorbidire le loro convinzioni. Quando si trovano davanti a un’idea differente da quella cui sono affezionate, le persone prigioniere di pregiudizi non sottopongono l’affermazione contraria a una verifica, ma – risparmiandosi il fastidio di ascoltare e ancor più di capire – la liquidano sulla base dell’aprioristica infallibilità di quella che per loro è la verità».

I pregiudizi sono ordinati per ordine alfabetico, non per nome dell’autore ma per la parola chiave dell’argomento, dall’Abito (che non fa il monaco) al Web (che uccide le librerie). Il lettore è invitato a un impegnativo braccio di ferro perché, chi più chi meno, siamo tutti affezionati a qualche idea che pensavamo fosse vera e provata prima di sottoporla a questa macchina della verità. Parlo per me, naturalmente. C’è nel libro un unico caso di luogo comune trattato due volte: «Buon sangue non mente». Una prima volta da Alberto Maria Banti, storico, e una seconda da Telmo Pievani, epistemologo. Si sono messi in due ma non mi hanno del tutto convinto. Una prima confutazione si trova in casa: la casa editrice del libro, la Giuseppe Laterza e figli, è nata nel 1886 a Putignano, provincia di Bari. 131 anni di vita e cinque generazioni della stessa famiglia provano che in questo caso il sangue non mente. La storia della musica è ricca di esempi, dalla famiglia Bach a Giacomo Puccini che arriva dopo cinque generazioni di musicisti. È altresì vero che Giuseppe Verdi era figlio di un vinaio; se i suoi due figli non fossero morti in tenera età, forse avrebbero camminato sulle orme del padre. Nessuno può dirlo.

Un caso lampante di continuità nelle generazioni è offerto dal cinema italiano dominato dalle famiglie; sono tante, dai De Sica, ai Gassman, ai Tognazzi, ai Comencini, ai Risi, ai Vanzina (il capostipite si firmava Steno). Con qualche eccezione: Carlo Calenda, figlio di Cristina Comencini, ha preferito fare il ministro dello sviluppo economico. Però, quando era un bambino ha ricoperto il ruolo del protagonista nella versione televisiva di Cuore di De Amicis, diretto da suo nonno Luigi. Proseguendo nella lettura alcune certezze vacillano. Andrea Carandini, nato signore, demolisce l’affermazione «Signori si nasce». Sarà. A me sarebbe piaciuto nascere signore, avrei saputo come fare il baciamano alle signore; non avrei dovuto rinunciare a mangiare certe portate ai pranzi di gala, non sapendo quale era il modo corretto di portare alla bocca le ostriche, l’aragosta o i gamberi nella polpa di avocado; non avrei rubato il pane dal piattino della mia vicina di posto.

Molti pregiudizi sono riferiti alle donne e la loro confutazione trova il nostro entusiastico consenso. Sebastiano Mauri si dedica all’affermazione: «Dio creò la donna dalla costola dell’uomo» e ci stimola a riflettere su aspetti dati per scontati: «Anche linguisticamente gli uomini sono ben protetti dai gelidi spifferi dell’eguaglianza. Basta un uomo in mezzo a cento donne, per rendere un gruppo maschile: loro sono arrivati, non arrivate». Ricordiamo il tema di uno scolaro di Parma: «Il Signore vide Adamo che era triste e disse: “Facciamolo andare a donne”. Così creò Eva». L’editore ha deciso di escludere dall’elenco i pregiudizi campanilistici poiché, a suo dire, il libro avrebbe assunto dimensioni mostruose.

Mi sono permesso di aggiungere, nelle quattro pagine bianche in fondo al volume, i due riferiti al mio campanile, che mi venivano ricordati ogni volta che, in giro per l’Italia, l’accento rivelava la mia origine. Dicevano: «Torinesi falsi e cortesi» e io replicavo: «Sempre meglio che sinceri e maleducati». Per fortuna lo si ascolta sempre meno forse perché la cortesia è diventata un bene prezioso. E pazienza se è accoppiata alla falsità. Che poi a guardare bene, più che altro è frutto di un’attenzione tesa a non urtare la sensibilità altrui. Il secondo pregiudizio suona: «Torinesi bogia nen» dove la O senza accento si legge U e «bogia nen» letteralmente significa «non ti muovere». È utilizzato per accusarci di essere tetragoni a ogni cambiamento, fedeli alle tradizioni. Benissimo, se il «bogia nen» è l’opposto di voltagabbana, del tifoso che rinnega la squadra del cuore quando perde, del politico che cambia partito per restare in sella. Per ribaltare la qualifica da negativa in positiva è sufficiente ricordarne l’origine: il 19 luglio 1747 al colle dell’Assietta quando il conte di Bricherasio con quel «bogia nen» ordinò ai soldati piemontesi che stavano per scontrarsi con i francesi (10 battaglioni contro 38) di non arretrare di fronte al nemico. Quel «bogia nen» contiene tanti significati, anche la disapprovazione per chi cambia stile di vita e il giudizio positivo per chi «sa stare al suo posto». Il guaio è che nessuno di noi, nella «società liquida» teorizzata da Bauman, sa più quale sia il suo posto.