Potere e rischi di una società fatta di immagini

/ 02.03.2020
di Natascha Fioretti

Nel libro di Lorenza Foschini Il vento attraversa le nostre anime (ne parliamo a pagina 38) tutto ha inizio da una lettera d’amore che Marcel Proust scrive a Reynaldo Hahn nel 1907. Una delle tante lettere dello scrittore francese solitamente vendute alle aste per cifre stellari. Proust trascorreva la vita scrivendo lettere, lettere «insensate e fiabesche», imperiose, leziose, «interrogative, ansiose», ingegnose, spiritose, che solleticavano la vanità del destinatario, lo turbavano con l’ironia delle loro iperboli, lo tormentavano con la diffidenza e lo affascinavano per il loro stile. Che meraviglia!, penso, mentre leggo. Quale importante fonte sono state le lettere nella storia della letteratura, quale profondo e intimo sguardo d’accesso nelle vite segrete degli scrittori.

D’un tratto ho provato un senso di amarezza. Un domani non sarà più lo stesso per chi, guardandosi indietro, studierà il nostro tempo: noi di lettere non ne scriviamo più. Per conoscere la vita di un autore cercheremo video su Youtube e sui profili social trovando tante immagini e poche parole scritte. Le immagini, i selfie, sono ciò attraverso cui oggi ci definiamo, ci presentiamo agli altri, una sorta di carta d’identità o di ritratto di noi stessi. Non solo rispetto a ciò che siamo ma anche e soprattutto rispetto a ciò che facciamo. Postiamo costantemente foto, spesso ritoccate, che documentano e raccontano dove andiamo, con chi siamo, cosa mangiamo, a quale evento partecipiamo e così via. L’immagine oggi vince su tutto, sul testo in particolare che sui social è sempre meno presente e ha spesso un mero effetto didascalico.

Non è un caso che i giovani tra tanti account e piattaforme prediligano Instagram. Io, invece, lo evito, mi sembra un pot-pourri di vanità e immagini decontestualizzate con poco senso o valore aggiunto per uno scambio di idee o di informazioni. A questo proposito mi è tornata in mente la chiacchierata di qualche giorno fa a Oxford con Charles Foster, l’autore inglese di L’animale che è in noi (Bompiani), libro nel quale racconta che per comprendere meglio sé stesso e migliorare le sue relazioni con gli altri esseri umani ha deciso di riconnettersi in modo più profondo con la natura e con l’ambiente. Per un anno è andato nei boschi vivendo come un tasso, una volpe o una lontra. Mi diceva quanto possiamo imparare dagli animali e dal loro modo di percepire il mondo, il territorio nel quale si muovono grazie ai cinque sensi. Mentre la nostra percezione del mondo esteriore passa quasi esclusivamente attraverso la vista, gli animali usano l’olfatto, l’udito e il tatto per orientarsi, per conoscersi, per cercare il cibo, per vivere.

Dovremmo prendere esempio da lui ma è difficile perché la tecnologia digitale ha amplificato la potenza delle immagini, velocizzato e semplificato a tal punto gli scambi, la comunicazione e le relazioni umane da spersonificarli. Se ci pensate, le immagini che circolano in Rete, così come le informazioni che condividiamo, sono parte dei nostri dati personali. E allora inquietano le rivelazioni fatte qualche settimana fa dal «New York Times» secondo cui l’azienda americana Clearview ha prodotto un’applicazione innovativa nel campo del riconoscimento facciale e dell’intelligenza artificiale. In buona sostanza questa app è in grado di riconoscere e identificare una persona attraverso la sua foto. Per farlo accede a un database di oltre tre miliardi di immagini che prese da Facebook, Youtube, Venmo e altri siti. L’app è anche in grado di ricostruire e fornire i link che riguardano le informazioni della persona in questione. Nulla di tutto questo era mai stato realizzato dai giganti della Silicon Valley o dal governo degli Stati Uniti, proprio per la minaccia che rappresenta in fatto di privacy. Intanto oltre seicento forze di polizia e sicurezza, tra cui l’F.B.I., utilizzano l’app. David Scalzo della Kirenaga Partners, uno degli investitori di Clearview, dice che l’app è un utile strumento per la risoluzione dei crimini e dice anche che visto il costante aumento della massa informativa non avremo mai più la privacy. Servono leggi adeguate per determinare cosa sia legale ma, a suo avviso, non si può censurare o limitare la tecnologia anche se equivale ad andare incontro ad un futuro distopico.

Non so come la pensate voi ma io a questo punto preferirei ritirarmi nei boschi per imparare a vivere come una volpe e in una casetta sull’albero rispolvererei l’arte di scrivere lettere.