Quando conduce al tempio del potere, il cammino dei re della modernità oltre che delle bandiere dei nazionalismi si adorna volentieri anche di simboli religiosi. Putin, l’antesignano, ha già abbracciato la fede cristiano-ortodossa e restituito prestigio e potere alla chiesa russa; l’islamico Erdogan ha reso moschea l’Hagia Sophia a Istanbul e inferto una profonda ferita simbolica al laicismo imposto alla Turchia da Atatürk cent’anni fa; e adesso è il turno di Narendra Modi, il primo ministro indiano seguace dell’ideologia hindutva (hindu first, si potrebbe parafrasare), che suggella la supremazia del nazionalismo indù sulle altre minoranze, quella musulmana in primis (quasi 200 milioni su 1 miliardo e 300 milioni di abitanti in India, un decimo dei musulmani nel mondo).
Non è stato un caso che Modi abbia posato la «prima pietra» (un lingotto d’argento di 40 chilogrammi) per il futuro tempio di Rama ad Ayodhya il 5 agosto, prostrandosi più volte davanti a un idolo della divinità e compiuto una lunga cerimonia religiosa. Su quel luogo fino al 1992 si ergeva la Babri Masjid, una moschea fatta costruire nel Seicento dal primo imperatore Mogul, Babar. Ma in tutti questi secoli gli indù l’hanno considerato come il luogo della nascita del dio Rama e nel 1992 una folla di integralisti ha attaccato e distrutto la moschea, scatenando violenze in tutta l’India, con oltre duemila morti. La controversia storica e soprattutto legale su a chi appartenesse il luogo, agli indù o ai musulmani, durò fino all’anno scorso, quando la Corte Suprema sentenziò che spetta agli indù, riconoscendo ai musulmani la potestà su un terreno poco distante, per erigervi una nuova moschea.
Perché il 5 agosto? Esattamente un anno prima, con un colpo di mano il suo governo aveva isolato il Kashmir, confinato la popolazione in casa, bloccato internet, inviato decine di migliaia di soldati, fatto incarcerare tutti i leader politici (compresi quelli filo-governativi), intellettuali, economici, per poi decretare decaduto l’articolo 370 della Costituzione che ha garantito dal 1949 uno statuto speciale a questa regione abitata in prevalenza da musulmani, incorporando il Jammu&Kashmir nell’India a tutti gli effetti. Il Kashmir è conteso da India e Pakistan, vi sono state più guerre per il suo controllo, la votazione promessa sull’indipendenza o meno dall’India non ha mai avuto luogo, e nel 1989 è nata un’insurrezione costata fra le 70 e le 100 mila vittime. Rafforzato dalla rielezione stravinta l’anno scorso in maggio, Narendra Modi ha voluto risolvere una volta per tutte la «questione kashmira» e dare inizio all’induizzazione della nazione. L’ha fatto usando il pugno di ferro: benché ai giornalisti stranieri sia vietato recarsi in Kashmir e internet è attivo solo da pochi mesi (a seguito di una sentenza della Corte Suprema), dalla regione giungono notizie e testimonianze di detenzioni illegali, torture, intidimazioni, confermate da fonti ONU. Il lockdown decretato in seguito al Covid-19 ha di fatto prolungato lo stato di prigionia dei kashmiri e dato un ulteriore severo colpo all’economia della regione. Sempre non a caso, con l’abolizione dell’articolo 370 viene a cadere anche il divieto per i non kashmiri, quindi per gli indù, di comprare terreni e proprietà. L’intenzione è di mettere col tempo i musulmani in minoranza, rendere indù tutto l’India. Una lenta pulizia etnica.
Questo non avviene in un regime autocratico come la Cina o la Russia, bensì in quella che ama definirsi la democrazia più grande (popolosa) del mondo. Una prova ulteriore che in questi tempi la democrazia non ci mette al riparo da chi è assetato di potere.