Populismo, a ognuno il suo

/ 05.03.2018
di Luciana Caglio

Siamo reduci da settimane, vissute in un crescendo di ansiosa aspettativa, e per i ticinesi su due fronti. Come cittadini elvetici, direttamente coinvolti nella votazione «No Billag», e come spettatori, maliziosamente curiosi delle vicende elettorali italiane. In entrambi i casi, spesso a dominare la scena era proprio il populismo, i cui interpreti vanno per la maggiore nel mondo politico attuale. Inevitabile il riferimento all’inquilino della Casa Bianca che, delle caratteristiche fisiche e mentali del populista sembra il prototipo, nella versione yankee più grezza e pacchiana. Non tutti i populisti, infatti, si assomigliano, fuori e dentro. Osservando il campionario europeo, ci s’imbatte in fisionomie contrastanti, persino sfumate. L’Italia, in quest’ambito ben fornita, presenta una folta schiera di figure non paragonabili. Salvini, di certo, non assomiglia a Di Maio e neppure a Berlusconi. E, se in Austria Sebastian Kurz assume toni pacati, il suo vicino, l’ungherese Viktor Orban pratica un populismo in termini assoluti e alza reticolati alle frontiere.

Tutto ciò per dire che l’avanzata populista, dato di fatto incontestabile, subisce, però, gli influssi del contesto, politico e culturale, in cui prende piede. Si adegua. C’è, insomma, populismo e populismo. In proposito, una volta ancora, la Svizzera è rappresentativa. Convivono, sul suo suolo, forme di populismo, fra loro diverse, ma entrambe, per nostra fortuna, assimilate dalle regole democratiche. Ecco, da un lato, l’UDC, già partito degli agrari, guidato da una figura bifronte, emblema delle virtù nazionali, efficienza e attaccamento al territorio, collezionista d’arte, ovviamente svizzera, e, in pari tempo, scomodo attaccabrighe. A questa compagine storica, si è affiancata, negli anni 90, la Lega dei ticinesi che, soprattutto, nei suoi esordi avventurosi e pittoreschi, il populismo l’aveva interpretato a pieno titolo. Ma, a sua volta, doveva cedere ai condizionamenti del potere. Seduti sulle famigerate «cadreghe», gli eletti cambiarono modi, se non obiettivi e ideologia.

Ed è, a questo punto, che il populismo è chiamato a rivelare i suoi reali contenuti, nei cui confronti timori e riserve si giustificano. Con i suoi connotati semplici, schietti, attraverso un linguaggio che usa parole quotidiane, anche il populismo nostrano copre fraintendimenti e alimenta illusioni. Si sente l’unico vero depositario di virtù locali e tradizioni ancestrali, esaltandone non soltanto la specificità ma addirittura la superiorità rispetto agli altri. Da qui, l’insidiosa deriva verso un razzismo, camuffato da un’apparente bonarietà e giustificato dalla crisi economica. Creata, del resto, dai cattivi che governano a danno della brava gente, che invece sarebbe in grado di fare meglio. Ciò che riconduce a una visione sbrigativa di una situazione ben più complessa e impegnativa.

Intanto, le argomentazioni del tipo «prima i nostri» hanno successo, danno un contentino momentaneo, ma travisano la fisionomia autentica del paese. Quella di un Ticino che, per sua fortuna, trova interpreti e difensori che si muovono su ben altri piani, consapevoli di un cambiamento con cui devono fare i conti. Certo, il dialetto va studiato e tutelato, come fanno Franco Lurà e i suoi colleghi, non però imposto nelle scuole di oggi. A loro volta, gli attrezzi rurali trovano giustamente posto nei musei delle valli, i prodotti dell’artigianato e della gastronomia locali popolano mercati e mercatini a iosa. Ma, in pari tempo, si aprono palchi destinati ai cantanti, agli attori, ai registi delle nuove generazioni. Perché cambiano gli interpreti e cambia la materia prima della nuova ticinesità.

Un esempio, più di altri, la dice lunga: il successo del film Frontaliers disaster, dove un tipico aspetto della vita di gente di confine, quale siamo, l’eterna litigiosità fra ticinesi e italiani, è affrontata con senso dell’umorismo e delle proporzioni. Un’ancora di salvezza più che mai indispensabile, per cavarsela, in tempi di guai. Che, poi, a dire il vero non sono così catastrofici come si compiacciono a dipingere i nostri populisti.